Visualizzazione post con etichetta roma. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta roma. Mostra tutti i post

lunedì, aprile 21, 2008

ACLI: CONVOCATO IL 23° CONGRESSO NAZIONALE

'Migrare dal Novecento. Abitare il presente. Servire il futuro’. Le Acli nel XXI secolo'. Questo il titolo scelto dalle Associazioni cristiane dei lavoratori italiani per il loro 23° Congresso nazionale, che si terrà a Roma, dal 1° al 4 maggio 2008.

La convocazione ufficiale è arrivata dal Consiglio nazionale dell'Associazione, riunitosi a Roma a metà ottobre, che ha discusso e approvato il tema del Congresso, gli orientamenti congressuali e il regolamento in base al quale si svolgeranno le assemblee di circolo e i congressi provinciali e regionali.

«Fin dal titolo – spiega il presidente delle Acli Andrea Olivero – chiariamo la nostra volontà di uscire dagli steccati, di avventurarci in strade nuove. Usiamo il verbo 'migrare', perché come migranti sentiamo il desiderio di partire alla ricerca di una terra più ospitale, carichi di speranza ma ugualmente incerti sulla meta, sull'approdo finale e disponibili a cambiare, anche in profondità se necessario. Il nostro non vuol essere certo un esodo né una fuga. Al contrario è un sentirci uniti al destino comune di tutti gli uomini, italiani e stranieri, credenti e non credenti».

«Quattro anni fa – aggiunge – scegliemmo ugualmente un cammino, ma nello spazio, per 'allargare i confini' della nostra azione sociale. Oggi lo compiamo nel tempo, uscendo dal Novecento per entrare, per davvero, con la testa e con il cuore, nel XXI secolo. Legando la nostra responsabilità all'impegno per il futuro, nel segno della speranza e del bene comune, per il nostro Paese e per tutti i popoli della Terra».
(Tutte le informazioni e i documenti su: congresso acli

venerdì, gennaio 11, 2008

Il magistero della Chiesa: Casavola sul Papa e Roma


È sperabile che l’incontro di Benedetto XVI con il sindaco di Roma e i presidenti della Regione Lazio e della Provincia di Roma, non dia adito a insidiosi commenti critici, ma sia accolto nei suoi profili positivi. Che nella capitale della Repubblica risieda un’autorità religiosa non allineabile nella scacchiera dei leader istituzionali e politici dovrebbe agevolarne l’ascolto quando parli dello stato della vita urbana in Roma. La sincerità e serietà dei rilievi è fuori discussione. I dati di esperienza, che affiorano nelle cronache cittadine e su cui si muovono frequenti inchieste giornalistiche, sono filtrati da quella rete particolare di sensori di cui la Chiesa dispone, con le sue comunità parrocchiali e le tante capillari realtà associative del laicato.Gli stati d’animo della popolazione sono colti non nell’attimo emozionale di un evento eccezionale o drammatico, ma nella loro lunga durata e permanente giustificazione. La insicurezza della povertà per i senza lavoro o con lavoro insufficientemente retribuito, o per abitazioni esosamente locate, o per famiglie non soccorse dalla solidarietà pubblica o dalla carità privata. Insicurezza dinanzi alla vecchiaia o alla malattia o alla solitudine. Insicurezza per la estraneazione reciproca di una popolazione mescolata di residenti e di migranti, divisi da sempre crescenti disparità di condizioni economiche, da origini regionali e nazionali e etniche e religiose diverse. E poi si tocca il culmine della insicurezza nell’impatto con la violenza delle aggressioni, delle rapine, degli stupri, degli omicidi in strada e in casa. Il Papa ha citato il caso tragicamente emblematico della uccisione della signora Giovanna Reggiani a Tor di Quinto. Le periferie, sempre più evocatrici delle favelas sudamericane, rifluiscono con i loro erratici marginali nei quartieri del centro. E allora la insicurezza strutturale diventa problema di polizia. E si dimentica che ne sono causa politiche sociali e urbanistiche. Ma che cosa può dire la Chiesa, oltre la rilevazione dei fatti? Non può disegnare una strategia di welfare, né un progetto di riordino o risanamento urbano. Non ne ha competenza. La Chiesa arresta la sua missione alla educazione delle coscienze, perché gli uomini spendano la loro vita nel bene, non la distruggano nel male arrecato a sé e agli altri. Perciò la Chiesa su questo confine si fa sollecita delle famiglie. La istituzione familiare da millenni assolve il compito di umanizzare sin dalla nascita gli esseri umani, negli affetti, nelle virtù morali, nella disciplina sociale. Questo ruolo della famiglia ha da sempre richiesto una organizzazione al costume sociale, alla legge civile, alla costituzione politica, e per i credenti a una religione. Oggi al modello di famiglia, consegnatoci attraverso un lungo processo di civilizzazione, cui hanno contribuito il diritto romano, il cristianesimo e i legislatori liberali, sembra volersi contrapporre, e non soltanto affiancare, un modello più immediatamente funzionale agli ideali individualistici della post-modernità. Il Novecento ha avuto come problema cruciale quello dello Stato, nelle sue filosofie e nelle sue guerre. Il nuovo millennio lo sta incontrando nella famiglia, come dilemma del suo superamento o della sua rinnovazione. Perché rifiutarsi di discuterne, quando si condivida una comune speranza nel migliore futuro dell’uomo?
Francesco Paolo Casavola

ROMA: "Riduttivo leggere parole di Benedetto XVI in chiave negativa"

PAPA/ ACLI ROMA: SPRONE A MIGLIORARE CONDIZIONI DI NOSTRA CITTA'

"Riduttivo leggere parole di Benedetto XVI in chiave negativa"

Roma, 10 gen. (Apcom) - "La parole del Papa sono uno sprone ad andare avanti e a migliorare le condizioni di vita nella nostra città": questo il pensiero del presidente delle Acli di Roma, Gianluigi De Palo, dopo il discorso di Benedetto XVI nell'udienza per gli auguri di inizio anno con il sindaco Walter Veltroni, la giunta comunale, il presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo, e il presidente della Provincia, Enrico Gasbarra.

"Credo sia importante ristabilire una gerarchia di priorità. Non è possibile lavorare sempre sull'emergenza. Anche perché la sensazione è che ci sia una città reale, che è quella di cui parla il Papa, dove le famiglie in difficoltà riescono a malapena ad arrivare a fine mese, dove i giovani non trovano il lavoro e gli immigrati vivono vite al limite della dignità; e una città virtuale dove i problemi maggiori sembrano essere quelli relativi alle battaglie ideologiche. In tal senso vedo necessaria una pianificazione e un coinvolgimento maggiore delle Associazioni che non solo sono insostituibili, ma in molti casi sono le uniche che lavorano in quelle zone di frontiera dove le Istituzioni latitano. Le Acli di Roma sono disponibili per una seria politica di concertazione".

De Palo vuole andare oltre le "sterili polemiche", di legge in una nota, e richiama l'attenzione di Comune, Provincia e Regione in particolare verso le famiglie: "Sono sicuro che il Vescovo di Roma con il suo intervento voleva richiamare l'attenzione sulle reali difficoltà delle persone. E' riduttivo leggere ogni volta le parole di Benedetto XVI in chiave negativa. Semmai il suo intervento ha evidenziato come ogni scelta deve tenere sempre presente il Bene Comune e mai il singolo individuo, a cominciare dall'attenzione all'istituzione della famiglia, spesso minata da attacchi insistenti e minacciosi".

martedì, giugno 26, 2007

Veltroni: domani niente sogni ma risposte


"Questo non è tempo di sogni, che non sono sufficienti: bisogna portare anche le risposte". Così Valter Veltroni anticipa il senso del discorso con cui domani scioglierà la riserva sulla candidatura per la leadership del Partito democratico.

A Bucarest, dove il sindaco di Roma sta effettuando una serie di incontri istituzionali per il rimpatrio volontario dei rumeni di Roma, le domande dei cronisti finiscono immancabilmente per toccare l'argomento Pd: a chi gli chiede se domani a Torino esporrà il suo sogno, Veltroni replica: "se vogliamo è più giusto usare il termine visione. Visione su cosa deve essere questo Paese, un tema che mi appassiona da tanti anni".

"Domani dirò quello che penso e lo dirò con umiltà e con lo stesso spirito con cui ho cercato sempre di interpretare quel ruolo magnifico che è fare il politico: mi pare che non è tempo di sogni, questi non sono sufficienti. Bisogna portare anche risposte, se vogliamo e' piu' giusto usare il termine 'visioni' su cosa deve essere il Paese: e' un tema che mi appassiona da anni", ha detto il sindaco di Roma.

"Come sto? Bene, grazie - scherza con i giornalisti - vi sembro nervoso? No, in generale sono una persona tranquilla e di buonumore. Sono molto tranquillo, faccio il mio lavoro come ho sempre fatto, con serenità, passione e devozione. Ma penso che quando si è all'estero in rappresentanza di un'istituzione si parla a nome dei cittadini: io qui rappresento tutti i cittadini di Roma e questo è quello che ho sempre fatto".

"Domani - ha continuato - sarà una giornata come le altre, non ci sono motivi particolari per un mutamento dello stato d'animo e la tensione con cui faccio il mio mestiere è sempre la stessa: nelle cose bisogna metterci sempre se stessi".

Cambierà il suo impegno nei confronti di Roma una volta scelta la strada del Partito democratico? "No, vi sarà lo stesso impegno. Le persone non cambiano a seconda del cappello che si mettono in testa".

mercoledì, giugno 13, 2007

PER NON ESSERE UTILI IDIOTI

IV Festa nazionale Comunità di Capodarco
Roma, 21 giugno 2007 – Capodarco di Fermo, 22-23-24 giugno 2007
PER NON ESSERE UTILI IDIOTI
Tra “gabbie assistenziali” e porte chiuse
Confronto tra il terzo settore e la politica
Roma, 21 giugno 2007
Comunità di Capodarco – Roma, via Lungro n.3

Anche se lungo, pubblichiamo il documento integrale prodotto dalla Comunità di Capodarco sui rapporti tra terzo settore e politica. Un testo utile alla riflessione di tutti.

Per non essere “utili idioti”

L’espressione forte che utilizziamo vuole esprimere il disagio che stiamo vivendo: nei confronti del mondo della marginalità che, nonostante tutto, non vede luce di soluzione; nei confronti di noi stessi, diventati ingranaggi di un welfare strutturalmente ingiusto; nei confronti della politica che ci utilizza sfacciatamente.


Un quadro desolante

Da oltre trent’anni siamo coinvolti nella politica sociale in Italia; da quando, nel 1971, con la legge 118, si parlò per la prima volta di handicappati riconosciuti persone, invece che semplici numeri o individui da nascondere. Gli anni ’70 sono stati l’inizio di una grande tensione sociale. La chiusura dei manicomi, il riconoscimento dei diritti alla salute con la riforma sanitaria, hanno costituito la pietra miliare di una concezione di popolo ugualitaria, solare, protesa verso il futuro, più giusta.
Sono di quegli anni le “prime invenzioni” alternative agli istituti, alle segregazioni, alle vergogne.
L’Italia, come del resto l’Europa, ha sperimentato, nel prosieguo del tempo, altre emergenze: la tossicodipendenza, la marginalità metropolitana, la devianza, l’immigrazione, l’invecchiamento della popolazione, il malessere psicologico e “immateriale”.
Abbiamo continuato a inventare risposte: comunità per ragazzi tossicodipendenti, comunità per ragazzi stranieri non accompagnati, comunità di vita, inserimenti lavorativi, integrazioni sociali. Sempre in salita: dovendo, ogni volta, spiegare, chiedere, aspettare che gli addetti comprendessero.
Lo stato sociale in trent’anni si è raffinato, con accelerazioni e decelerazioni: non in modo omogeneo nel tempo, né nei territori. Tensioni di riforma sono state accompagnate da periodi di riflusso: non si è arrivati, come per la sanità, l’istruzione, la comunicazione, l’energia, a un assetto stabile di risposta sociale.
Dal versante del privato sociale ci hanno accompagnato due fenomeni: il crescere, non sempre lineare e disinteressato, di associazioni, onlus, fondazioni, cooperative e, contemporaneamente, il sorgere delle scienze sociali: sociologi, psicologi, assistenti sociali, pedagogisti, educatori, laureati in scienze sociali sono diventati numerosi e invadenti.
Eravamo coscienti che ai problemi sociali non si poteva più rispondere con il buon cuore.
A questo punto abbiamo commesso un gravissimo errore, di cui oggi sentiamo le conseguenze negative. Siamo diventati gestori di servizi, senza riuscire ad ottenere un quadro di riferimento uguale in Italia, caratterizzato da risposte certe, diffuse nel territorio, di livello minimo garantito. Siamo stati succubi, superbamente orgogliosi, della nostra risposta precaria, con quattro grandi limiti: abbiamo perduto la nostra dimensione di coscienza critica e di inventiva; abbiano subìto “gabbie assistenziali” imposte da altri; abbiamo creato “aziende sociali” imbarcando specialisti di ogni genere; siamo stati promotori di un mercato straccione.
Con un sguardo distaccato, ma sufficientemente lucido, non è difficile capire che il mondo assistenziale odierno conserva tutte le caratteristiche di debolezza e instabilità.

Non abbiamo più coscienza critica. L’approccio caratteristico della gestione dei servizi non ha portato a leggere i fenomeni di sofferenza sociale con occhio alle cause e alla loro rimozione. L’istinto oramai era quello di creare risposte sociali. Come agenzie abbiamo proposto la soluzione dei problemi: chiavi in mano, come a volte ci veniva chiesto. Che cosa accade su un territorio, quali risorse “naturali” utilizzare, quali forme alternative di risposte sono diventate non quesiti. La preoccupazione è stata quella di cercare la nicchia entro cui attestarsi, nello sforzo di dare un servizio decente.
Questo trend ha fatto lievitare le agenzie sociali: ce ne sono di tutte le razze. Fondazioni non fondazioni; onlus padronali; cooperative imprese, mercato privato. Il mondo del volontariato, così esaltato e così nobile e diffuso è inquinato: anche da malaffare e da cattiva coscienza. Né occorre fare nomi, perché tutti conoscono, in un territorio, chi agisce per che cosa. Si è creata una situazione paradossale. Non siamo stati capaci di far crescere la coscienza civile per avere risposte che non dipendessero, di volta in volta, dalla disponibilità delle risorse o di qualche amministratore illuminato. Moltissime leggi, nel frattempo, sono state scritte e pubblicate. In nessun territorio si sa con certezza qual è lo zoccolo duro della risposta sociale e quali gli attori preposti alla realizzazione: appalti, convenzioni, pubblico, semipubblico sono diventate modalità senza logica e senza costrutto.

Nel mercato che evolveva, la parte pubblica si è organizzata in modo schizofrenico. Impostando standard di qualità altissimi: dettagli che nulla lasciassero al caso. Con una puntigliosità patologica, confondendo piccole comunità con hotel; mense dei poveri con ristoranti. Il fatidico accreditamento è un esame da cui nessuno sfugge e dal quale nessuno ha più sconti. Le abbiamo chiamate “gabbie assistenziali”: luoghi preconfezionati dove possono accedere coloro che hanno determinate morbilità, con qualità strutturali regolate nei dettagli, affidate a professionalità accademiche, senza prevedere, alla fin fine, la qualità della vita. Mai nessuna parola che esprimesse valori irrinunciabili per un anziano, per un disabile, per un malato psichiatrico: mondi umani ai quali si risponde con l’accademia, dimenticando che ogni ambiente riabilitativo deve essere umano prima che perfetto.
E’ sembrato che lo schema medico abbia prevalso su quello assistenziale: la cura degli organi, dimenticando che chi è in difficoltà sociale non ha organi malati, ma ha la vita difficile.

In queste circostanze era logico dover creare vere e proprie aziende. Con patrimoni, fatturati, gestione delle risorse umane improvvisati e claudicanti. Solo recentemente si è formata una classe di manager esperti di sociale: costoro non sono di casa presso il non profit, ma nel mercato. Offrono professionalità anaffettive: luoghi belli, invece che persone belle. Ambienti lucenti invece che relazioni. Il dubbio è che le “gabbie assistenziali” siano state inventate per collocare i professionisti. Non si spiegherebbero altrimenti impostazioni dai dettagli utili per la clientela in transito, ma niente affatto logici per chi nella struttura deve trascorrere la vita. Noi siamo rimasti al palo, costretti a fare un mestiere al quale non eravamo né preparati, né affezionati, rischiando di tradire ciò che avevamo di caratteristico.

Infine il mercato “pubblico” ha mostrato il suo antico cinismo. In nome dell’equità ha messo ogni cosa a concorso, esigendo un pranzo di nozze al prezzo di una pizza; scatenando rivalità; non preoccupandosi delle vittime della guerra degli appalti, lasciando che il mercato si muovesse autonomamente. Ogni fantasia è stata attivata per risparmiare: il ricorso alle figure dei lavoratori-soci, forme di contratto improprie, volontari-operatori: il precariato è abbondantissimo. Ma se, nel servizio pubblico, un giorno forse, un precario sarà stabilizzato, nelle imprese non profit nel futuro ci sarà il licenziamento: è sufficiente non conseguire l’appalto dell’ anno successivo.

Di fronte a questo quadro prende sconforto e smarrimento: né è possibile chiudere bottega. Sono state coinvolte famiglie, lavoratori, il buon nome, gli anni dedicati.


Il welfare che non interessa più nessuno

Al di là dei propri errori è però indispensabile chiedersi a che punto è la politica sociale in Italia.
La sensazione che abbiamo è che stiamo regredendo e anche velocemente. Alcuni fenomeni antichi e nuovi fanno da indicatori.
Per quel che abbiamo capito, nel precedente governo le politiche sociali non ci sono state. I problemi sono stati affrontati per slogan legislativi: tossicodipendenza, immigrazione, prostituzione, carceri. Importante era rassicurare la popolazione: tolleranza zero, sicurezza sociale etc. etc. Magari, nemmeno quella. Leggi carta straccia, perché non accompagnate da nessuna reale politica. Tagli alle amministrazioni locali; piccoli spot pubblicitari: mille euro a bambino nato, 700 mila dentiere (promesse) ai vecchi e vai.
Il governo odierno ci ha detto che bisognava riordinare i conti. E’ venuto fuori “il tesoretto”. Sappiamo già che fine farà: ben che vada sarà spalmato perché milioni di famelici diranno che stanno sul lastrico. Chi veramente ci sta, ci rimane.
E veniamo al dettaglio: povertà, famiglie, anziani, carceri, tossicodipendenze, non autosufficienza, immigrazione.

E’ già da qualche lustro che doverosamente l’ISTAT ci racconta delle famiglie povere in Italia: due milioni e mezzo circa, composte sempre dalle stesse persone: famiglie numerose, persone sole, al sud.
C’era stato un tentativo di reddito minimo di inserimento. Scomparso nel nulla. I non autosufficienti: come sopra. Le carceri, disumane, come sempre. I Sert vecchi di vent’anni. La nuova legge sull’immigrazione: più furba di quanto sia generosa. Corsie preferenziali per infermieri, badanti, colf, tecnici specializzati, manager, artisti. Quanti ci servono (eccetto gli artisti).
Le famiglie: quattro mesi impegnati sul riconoscimento dei diritti delle famiglie di fatto. Scarsa natalità; invecchiamento della popolazione; ricorso abbondante alle colf; affitti delle case in crescita libera; assenza di ogni politica “giovanile”: sono rimasti dove erano.
Resta il dubbio di sapere se ancora esiste una progetto di welfare. Forse nelle carte e negli organismi che rapidamente si attivano: tavoli di raccordo, uffici, inchieste, affitti, linee telefoniche, segreterie, programmazioni che hanno solo il merito di sistemare giovani disoccupati e amici dell’entourage, dimenticando i destinatari. Un motore che brucia il 75% delle risorse per stare acceso.
In genere si rimandano alle amministrazioni locali le incombenze di politica sociale. E’ una specie di elastico: dal governo ai territori, dai territori al governo.
Non possiamo più tacere. Abbiamo la sensazione di essere diventati i gestori dell’ultimo spicchio della società: poveri tra poveri, marginali tra marginali.


Il non futuro

Forse è arrivato il momento di sapere esattamente dove siamo collocati: per chi e a quali condizioni. Non vediamo né prospettive, né tanto meno progettazioni.
Eravamo arrivati al nuovo assetto della 328. Aveva buone intenzioni: programmare il territorio e sviluppare una rete sociale congrua. L’unico risultato è stata la moltiplicazione di leggi regionali, di strutture intermedie, di allocazioni di personale, rimasuglio della politica.
Nessuno sa quali siano i diritti sociali riconosciuti, quali le garanzie minime di aiuto e assistenza. Non siamo così ingenui da non capire che il sociale, strutturalmente, è debole e marginale. Un congruo sviluppo della ricchezza del paese non può però, nella prassi democratica, non far procedere, di pari passo, una politica sociale adeguata.
Siamo ancora nello schema della pelle di leopardo: in alcuni luoghi servizi abbondanti, in altri inesistenti; in alcuni di eccellenza, in altri di impostazione antica.
In questa dislessia diffusa occorre rimettere ordine. Magari con fatica e scelte difficili: non è più possibile navigare a vista.
Una prima grande scelta è decidere se la politica sociale è a capo della famiglia o a una rete di servizi. Al di là delle parole, l’orientamento è in atto: minori, anziani, disagio giovanile, devianza sembrano essere affidati alle famiglie. Esse reagiscono come possono: chi ha strumenti affronta i problemi; chi non ne ha subisce il peso della inadeguatezza. I servizi a volte sembrano offrire soluzioni, a volte respingono la domanda dichiarando di non avere strumenti; a volte si affiancano, a volte invadono, a volte si allontanano.
Un secondo tratto da definire è stabilire che cosa il territorio nazionale offre, sottraendo il sociale da tutte le intemperie che si abbatte su di esso (la finanziaria, gli appalti, le precarietà, le amministrazioni). Non è possibile continuare a vivere precariamente. I grandi temi sociali sono diventati per le amministrazioni e per noi stessi ricerca affannosa di risorse, spulciando tra i residui finanziamenti. Alla disoccupazione giovanile non si può rispondere con risorse di qualche mese, raccattate da stanziamenti dell’Unione europea; né si può trattare il sociale con il ricorso massiccio alle badanti, ancora a basso costo.
Alla fin fine: è possibile riprendere il filo delle politiche sociali in Italia, facendone il punto e indicandone i successivi passaggi? Il dubbio fondato è che in realtà le attenzioni siano altrove: per la mente dei più (governanti e governati), nello schema del grande sviluppo economico non sono previsti, se non come fastidiose postille, i problemi delle irregolarità (disabili, immigrati, malati, irregolari, anziani). Non è vittimismo scoprire che sono anni che nessuno ci ascolta. Semplicemente perché i problemi nei quali siamo immersi non fanno parte di nessuna agenda.
La conclusione amara è che la società dei regolari si stia organizzando per il futuro, non prevedendo e quindi non affrontando il livello di vivibilità dei deboli. In questa prospettiva la politica è madre e figlia del disinteresse. Non abbiamo nessun alleato: non nella popolazione “regolare” che pensa a sé; non nella agenzie della solidarietà (sindacati) pressate dagli interessi dei propri iscritti, nemmeno tra noi stessi, incapaci di fare fronte comune e offrire indicazioni di ampio respiro. Anche i più esigenti pensano ai propri militanti in cerca di lavoro e di casa. Il vecchio non autosufficiente è veramente solo e abbandonato: sopravvive se ha una famiglia che lo ama; fosse per lo coscienza collettiva sarebbe ricollocabile nei casermoni dall’acre odore di orina. La stessa Chiesa cattolica è rifluita nella logica dell’assistenzialismo, capace di offrire pasti caldi e biancheria pulita usata. Anch’essa ha altri temi prioritari: gli ultimi sono proprio ultimi.


A chi serviamo?

La sintesi dei disagi che viviamo è rappresentata dalla nostra relazione con la politica. Una relazione che ha due debolezze: di dover essere filo-governativi per sopravvivere; di non essere interlocutrice di nessuno.
Sembra che l’assetto della società italiana si sia stabilizzato intorno agli interessi del cosiddetto “centro”. Una espressione che non è solo rivelatrice delle politiche da adottare, ma che vede nel nucleo “regolare” della popolazione l’epicentro degli interessi, dei dibattiti, delle risposte. Al di là delle differenziazioni lessicali, l’interesse per il “centro” coinvolge tutto l’arco della politica. In questo quadro siamo considerati e ci sentiamo periferici. Per questo non ci entusiasmano i processi di rinnovamento dei partiti e delle loro alleanze. Comunque gli assetti saranno, abbiamo certezza di non essere interlocutori. Non per chi siamo; ma per gli ambiti che rappresentiamo. Insomma la politica si sta occupando del core-business dell’Italia, che non siamo noi.
Tre esempi. La discussione sui DICO è rivelatrice dell’attenzione ai benestanti, con la richiesta di riconoscimento di diritti per persone che hanno carte in regola in termini culturali, economici, sociali, ai quali manca un piccolo pezzo che è il riconoscimento di veri o presunti diritti. Come si fa a parlare di famiglia in Italia non partendo dei suoi problemi strutturali: la casa, le lrisorse, la povertà; la denatalità, i giovani, l’invecchiamento, la non autosufficienza?
Altro esempio è quello dell’indulto. L’unica discussione parlamentare e sociale è stata quella di sapere quale impatto avrebbe avuto sulla popolazione regolare. A nessuno ha interessato la finalità dell’indulto e cioè i soggetti che ne erano coinvolti. In fondo in fondo la cultura prevalente è quella di chiudere la porta e “buttare la chiave”. Per questo motivo l’indulto non è stato accompagnato da nessuna politica di integrazione.
Infine la prostituzione: le uniche discussioni sono sulla pulitura delle strade. Un governo che garantisse tale pulizia sarebbe il migliore del mondo. Che cosa avviene all’interno di quel mondo di violenti e profittatori, di vittime e di bavosi clienti, non interessa proprio nulla.
Si comprende la solitudine profonda ad operare per persone deboli che non hanno solidarietà.
La nostra storia ci impedisce di essere operatori ecologici che mantengono pulita la città. Ce lo vieta la nostra coscienza e la dignità delle persone con le quali viviamo e alle quali ci sforziamo di offrire futuro.


Capodarco, maggio 2007


  • Il programma completo della IV Festa delle Comunità di Capodarco
  • martedì, maggio 22, 2007

    L’UOMO DELLA CARITA’ DON LUIGI DI LIEGRO

    Il film è liberamente ispirato alla vita di Don Luigi Di Liegro

    Anni Cinquanta, Belgio, conosciamo Di Liegro nelle insolite vesti di minatore mentre lavora a fianco degli immigrati italiani. Quando Luigi era bambino ha visto suo padre tentare più volte di emigrare negli Stati Uniti, senza successo. Capisce lo strazio dell’emigrante: lasciare i propri cari o morire di fame. E allora sente il disperato bisogno di stare insieme a loro e tentare di alleviare i momenti di sconforto e di disperazione. Forse per la prima volta Luigi capisce che il compito principale di un prete, per migliorare la qualità della vita di chi sembra essere senza speranza è innanzitutto quello di essere una guida per la formazione di una comunità salda.

    E’ in queste circostanze che conosce don Eugenio (Carlo Gabardini), l’amico che rimarrà con lui tutta la vita per incoraggiarlo, spronarlo e qualche volta metterlo di fronte ai suoi errori. Di Liegro è un uomo d’azione, odia l’immobilità, desidera a tutti i costi aiutare gli altri ma spesso si trova a correre da solo, avanti a tutti, perché prima di tutti intuisce il problema e la sua soluzione.
    Come in questo caso, in cui il progetto di Luigi fallisce: il vescovo non vede di buon occhio la sua vicinanza con i minatori e lo rispedisce rapidamente a Roma.
    Ma qui Luigi continua la sua corsa. Anni Sessanta, dopo aver convinto la burocrazia ecclesiastica, incarnata nella austera figura di Mons. Fabbri (Mariano Rigillo), riesce a farsi assegnare a Giano, una borgata che rappresenta la miseria e le condizioni di vita disperate che una gran parte dell’Italia si trova ad affrontare in questi anni. E’ qui che conosciamo Alfio, figlio di baraccati, già indirizzato verso una vita di criminalità. Alfio è cinico, impenetrabile, non si lascia contagiare dal progetto di Don Luigi. Un giorno il ragazzo viene portato via dai Carabinieri e nel vederlo allontanarsi Luigi sente forse di aver fallito. Ma i due sono destinati ad incontrarsi ancora…
    Intanto, una notte, Luigi viene svegliato da Eugenio. Nella sua parrocchia i carabinieri hanno fatto irruzione nella struttura della Pastorale che si occupa di Servizi Sociali: malati legati ai letti e trattati come bestie. Di Liegro tocca con mano la scandalosa ipocrisia di quella che dovrebbe essere la carità cristiana. Il nostro ha un duro scontro con Mons. Fabbri, il quale, quasi per sfida, decide di affidargli la direzione della Pastorale. Luigi non si tira indietro e, dal niente, comincia a costruire quella che diventerà la Caritas. Il progetto è quello di sempre, ma questa volta su grande scala: si tratta non tanto di “fare la carità”, ma di realizzare una rete di solidarietà che restituisca ai dimenticati della società dignità e identità reinserendoli nella comunità che li ha emarginati. E’ un lavoro di squadra che coinvolge Eugenio, Fausto (Simone Gandolfo) e Suor Ada (Claudia Coli), una giovane suora del nord combattiva e instancabile. Nella squadra c’è anche Silvia (Moira Grassi), una giornalista interessata ai progetti di Luigi che lo appoggerà sempre, fino alla fine. Luigi e i suoi collaboratori dovranno affrontare anche la pigrizia e la diffidenza della classe politica, incarnata nella figura dell’on. Robatta (Renato Carpentieri). Questi si trova spiazzato dalla caparbietà di un rappresentante della Chiesa che decide sorprendentemente di non schierarsi con il potere. Il progetto culmina nella creazione dell’Ostello di via Marsala, una struttura efficiente e non degradante, con mensa e posti letto.
    E’ una vittoria indiscussa, della quale si fa vanto anche Robatta, ma Luigi è già oltre, alla sfida successiva. Siamo nei primi anni Ottanta e ha appena conosciuto Diana (Chiara Gensini), un’adolescente di buona famiglia che, dopo essere stata cacciata di casa per la sua tossicodipendenza, è finita a vivere per strada. Diana è la ragazza di Alfio (Flavio Pistilli), il bambino baraccato di Giano, ormai cresciuto e anch’egli tossicodipendente. Diana ha una strana malattia, poco conosciuta perché nuova, l’AIDS.
    Luigi ha capito in anticipo che quello dell’Aids è un problema serio ed inizia un’opera di sensibilizzazione. La Caritas è diventata una struttura forte, efficiente e autonoma e Luigi si dedica anima e corpo alla creazione di una casa famiglia per malati d’Aids a Villa Glori. La casa si trova in un quartiere dell’alta borghesia romana, i Parioli, e subito nascono i problemi. Incoraggiato dall’affetto per Diana, Luigi parte con la sua solita determinazione e occupa la casa, cominciando fin da subito a trasferirvi i malati. Tra questi anche Alfio che con la sua indole provocatoria e violenta continua a non credere ai progetti di Luigi. Alfio ricomincerà ben presto a drogarsi, scomparendo di nuovo.
    Intanto il quartiere si è mobilitato e ha costituito un comitato per l’espulsione dei malati da Villa Glori. Il comitato, nel quale è presente anche il padre di Diana, fa pressione al Comune e sembra avere la vittoria in pugno. Nel frattempo Diana muore, e Luigi decide di celebrare il funerale della ragazza ai Parioli. E’ un evento straordinario, che spiazza i fedeli tra i quali i genitori di Diana. Con parole semplici, Luigi riesce a far breccia nel cuore dei presenti e a convincerli che la ragazza scomparsa, insieme a tutti i malati, faceva parte della loro stessa comunità. Dopo questo evento il comitato si ritirerà e la casa famiglia di Villa Glori otterrà l’autorizzazione.
    Primi anni Novanta, i vertici della gerarchia ecclesiastica sono cambiati, l’eterno amico-nemico di Luigi, Mons. Fabbri, è stato rimosso. Senza più appoggi, Luigi viene mandato in Albania con un nuovo incarico. Il regime è caduto e c’è da avviare l’ordinazione di nuovi sacerdoti. In viaggio con Eugenio, Luigi ha la possibilità ancora una volta di intuire quale sarà il nuovo problema da affrontare. Migliaia di clandestini si stanno ammassando sulle coste. Stanno fuggendo e vogliono venire in Italia.
    Stavolta si tratta di un problema planetario, di portata storica, e Luigi è tra i primi ad intuirlo e a cercare concretamente delle soluzioni.
    Eccoci allora alla Pantanella, con Luigi che si batte per l’accoglienza degli immigrati. C’è Kamel, un pakistano che Luigi aveva già conosciuto all’Ostello di via Marsala, che si è innamorato di un’italiana e vorrebbe sposarla. Luigi celebra un matrimonio misto, a fianco dell’Imam. Durante la cerimonia nella Pantanella, però, scoppia una rissa che degenera in una vera e propria battaglia tra immigrati di diversi Paesi.
    La battaglia è finita e Luigi è sul tetto dell’edificio. Attende l’inesorabile arrivo delle forze dell’ordine. L’edificio sarà sgombrato, gli immigrati dislocati e allontanati. E’ una sfida che Luigi non fa in tempo a vincere. E’ troppo tardi, le sue condizioni si sono aggravate ed è costretto a ricoverarsi. Ma forse niente è ancora perduto, il problema della convivenza tra popoli è come un simbolico testimone che Luigi lascia alle generazioni future. Nelle ultime ore di vita di Luigi ricompare Alfio. Sembra in forma, ripulito, elegante. Luigi ha sempre creduto di aver fallito con il ragazzo. Invece sarà proprio lui, mano nella mano, ad accompagnarlo negli ultimi istanti di vita.

    mercoledì, aprile 11, 2007

    A Voce Alta. Prima giornata universitaria per la legalità




    Avete mai visitato la Sicilia? Una terra dalle mille sfaccettature, aspra e deserta tra le sue colline, dolce e viva sulle rive del Mediterraneo, E siete mai stati a Napoli? Una città incantevole dove si può respirare a pieni polmoni la Storia, che si succede di vicolo in vicolo, di sampietrino in sampietrino. E’ tra quelle montagne deserte e tra quei vicoli che cova il male che affligge il Bel Paese…! È l’altra faccia della medaglia : le sparatorie, i sequestri, il pizzo. Cosa Nostra, Camorra, Sacra Corona Unita, ‘Ndrangheta, Falcone e Borsellino, Provenzano sono figure entrate a far parte dell’immaginario comune, che è soltanto il riflesso di una realtà concreta e, quando questi nomi non finiscono nel dimenticatoio dei più, sono per la maggior parte solo l’eco lontano di una situazione che adesso come non mai va affrontata in modo pragmatico. Due le condizioni fondamentali: INFORMAZIONE E SENSIBILIZZAZIONE verso un fenomeno che non è più cronaca ma che non è ancora storia. Un fenomeno con un nome a volte troppo scomodo: MAFIA. Nell’ottica di questa sensibilizzazione il 13 aprile prossimo è stata organizzata una giornata della legalità qui alla Luiss, che si propone di svegliare le coscienze e le menti di tutti gli studenti. A VOCE ALTA sarà come un secchio d’acqua gelata a prima mattina.

    Vi lascio con una “parabola” tratta da Le storie da calendario di Bertolt Brecht. A proposito della “cattiva abitudine di mandar giù in silenzio le ingiustizie patite”, il signor K. racconta la seguente storia: un passante volle sapere da un fanciullo in lacrime il motivo della sua pena . “Avevo messo due soldi per andare al cinema – disse il ragazzo – quando mi si avvicinò un giovane e me ne strappò uno di mano”, e indicò un giovane che si poteva vedere a qualche distanza. “E non hai chiamato aiuto?” – chiese il passante. “Certo” – disse il fanciullo singhiozzando un po’ più forte. “Non ti ha udito nessuno? – domandò l’uomo – Allora dammi anche quest’altro” – gli prese di mano l’ultimo soldo e continuò tranquillamente per la sua strada.
    Guai a non urlare abbastanza forte da farsi sentire, a subire inerti.

    Claudia Caluori

    13 APRILE 2007
    a VOCE ALTA
    I Giornata Universitaria della Legalità
    Massimo Egidi, Rettore Luiss Guido Carli
    Don Luigi Ciotti, Presidente di Libera

    Tavola rotonda
    Don Luigi Merola, attivista. Parroco di Forcella
    “Alla luce del sole nel buio di Forcella”
    Filippo Callipo, attivista. Presidente “Giacinto Callipo conserve alimentari”
    “L’isolamento di chi sa dire di no”
    Tano Grasso, attivista. Presidente della Federazione Nazionale delle Associazioni
    antiracket e antiusura
    “La LORO economia”
    Pino Arlacchi, gia Sottosegretario Generale delle Nazioni Unite, Direttore
    dell’UNDCCP ( ufficio Nazioni Unite per il controllo delle droghe e la prevenzione del crimine) e Direttore Generale dell’ufficio delle Nazioni Unite a Vienna
    “Mafia S.P.A. International”
    Myrianne Coen, Consigliere d’Ambasciata
    “Organizzazioni mafiose: le dinamiche dopo Schengen”
    Pier Luigi Vigna, già Procuratore Nazionale Antimafia
    “Gli anni in prima fila”
    11:30 - 12:00
    Coffee break
    12:00 - 13:30
    Workshop

    a) L’informazione che non c’è: Roberto Morrione, Sandro Ruotolo, Miodrag Lekic
    aula magna, Via Parenzo
    b) Costi e profitti dell’illegalità: Pino Arlacchi, Filippo Callipo, Tano Grasso,
    Antonio Balsamo, Mirella Agliastro, Gianfranco Donadio
    aula 18 bis, Viale Pola
    c) “Ubi societas ibi mafia?”: Myrianne Coen, Lorenzo Diana, Don Luigi Merola,
    Angelo Carmona
    aula magna, Viale Pola
    13:30 - 14:00
    Conclusione dei lavori

    Presentazione delle proposte elaborate all'On. Giuseppe Lumia,
    Vice Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia

    in collaborazione con

    domenica, marzo 25, 2007

    Una piazza per, non contro.

    Dov’è il vostro tesoro — dice il Vangelo-, là sarà anche il vostro cuore». Potrà sembrare strano a qualcuno, ma queste parole celebri di Gesù mi sono venute in mente in queste ore convulse passate a parlare, riflettere e discutere di Family day, richieste delle famiglie, polemiche poliriche e inaspettate risorse extragettito. C’è una grande manifestazione popolare indetta dalle più importanti organizzazioni del laicato cattolico italiano.
    Una manifestazione per mettere finalmente al centro dell’attenzione della politica, e della società, il valore e la realtà concreta della famiglia. C’è un ministro della famiglia che risponde positivamente: «Il mio cuore è con voi». C’è infine un governo che ammette di ritrovarsi nel cassetto un “tesoretto”. Quale migliore occasione per dimostrare a tutti — dico a tutti — che davvero la famiglia è al centro dei pensieri e nel cuore di questo esecutivo? Se il bonus fiscale derivante dalle maggiori entrate tributarie, l’ormai noto tesoretto, sarà destinato effettivamente alla famiglia — ad esempio nella forma dell’abolizione Ici per la prima casa — non avremo ottenuto forse il primo importante risultato del tanto temuto family day? Non avremo dato la prima vera risposta a quella maggioranza silenziosa di famiglie “tradizionali” che da troppo tempo ormai attendono di essere riconosciute e aiutate nella loro “ordinaria” eppure eccezionale quotidianità? Perché allora tanta preoccupazione e agitazione per questo fatidico 12 maggio in piazza San Giovanni? Perché se i cattolici si mobilitano non si guarda all’oggetto delle loro preoccupazioni, ma si valuta strumentalmente quale può essere l’obiettivo politico-partitico che sta dietro alle loro scelte?
    Nei mesi passati abbiamo assistito a scioperi e a manifestazioni per tutelare salari e orari di lavoro, anche imponenti, organizzate dalle confederazioni sindacali, alcune delle quali non certo politicamente neutre, eppure nessuno si è sognato di parlare di spallata o di iniziativa antigovernativa. Invece, quando al centro si è collocata la tutela della famiglia e come promotrici sono comparse le più importanti organizzazioni del laicato cattolico italiano, subito s’è destata la paura ed è emerso il sospetto.
    Proviamo capirne il motivo. Innanzitutto la famiglia: un tema assai desueto per il politichese, almeno fino alle ultime elezioni, quando tutti i programmi elettorali sono stati infiocchettati con proposte, più o meno demagogiche, a suo sostegno e fino a che, non senza coraggio, il governo Prodi ha fatto nascere un apposito ministero con il compito di promuovere questo straordinario soggetto sociale. Da allora in avanti, però, pur con qualche tentativo di dare concretezza ai programmi, comparso in Finanziaria — con risultati invero ancora assai modesti — si è parlato principalmente di famiglia solo per darne definizioni e per chiarirne i limiti. E il dibattito, invece di portare a una mobilitazione per sostenere un valore dimenticato da tanti governi, anche cattolicissimi, che si sono susseguiti negli anni passati, è rimasto imprigionato nelle sabbie mobili della sterile contrapposizione ideologica. La politica, la buona politica, come tutti ben sappiamo, comporta la scelta coraggiosa delle priorità: in questi mesi, invece, ci si è accontentati di seguire l’onda del dibattito mediatico, spesso lontano dalla realtà e manipolato da minoranze organizzate. Allora perchè stupirsi se alcuni soggetti, che da sempre lottano per i diritti della famiglia, che si spendono in mille modi diversi per darle concreto aiuto, decidono anche di scendere un piazza? L’attenzione mediatica, una volta tanto, oggi c’è, le proposte concrete queste organizzazioni le hanno predisposte da tempo e tra loro affinate, l’entusiasmo e il desiderio di fare dei propri associati è palese. La politica sembra aver bisogno di una piccola spinta, per poter andare finalmente nella giusta direzione, rimettendosi in sintonia con il sentire dei più. Il family day, quindi, può divenire un vivace e partecipato momento di rilancio, uno sprone perché la conferenza sulla famiglia, che il governo ha indetto per la fine di maggio, non sia un incontro rituale, ma davvero l’avvio di una grande stagione di riforme e di investimenti coraggiosi. Quanto agli organizzatori, diversi nella loro storia, per sensibilità e interessi specifici, credo non debba stupire nessuno il fatto che abbiano trovato su questo tema un convinto motivo di unità. Sono infatti, ciascuno a proprio modo, associazioni e movimenti che vivono la loro ecclesialità nel servizio, di annuncio, testimonianza e carità, alle persone concrete, in carne ed ossa, con tutti i problemi che il mondo oggi ci pone innanzi. Parlare di famiglia per queste organizzazioni non può essere astratta elucubrazione sui massimi principi, ma nemmeno riduttivistica elencazione di problemi. Come emerge dal manifesto “Più famiglia”, al cuore vi è il desiderio che si affermi la bellezza di questo bene umano fondamentale, che se ne riconosca il ruolo sociale, la soggettività, la capacità di produrre coesione sociale e, ancor più, dì dare significato alla vita.
    Non si nega l’attenzione anche alle istanze di quanti vivono in unioni differenti da quelle familiari, che pure sono spesso oggetto delle cure delle organizzazioni promotrici, ma si ribadisce la necessità di non fare confusione. Lasciando poi al legislatore, come è giusto che sia, opera. re le scelte più coerenti con il dettato della Costituzione e con i valori che vengono enunciati. Possiamo sperare che da oggi al 12 maggio si affievoliscano le polemiche e crescano le proposte concrete? I segnali di queste ore, la richiesta di molte forze politiche di investire l’intero gettito aggiuntivo sul sostegno alla famiglia, ci fanno ben sperare. L’importante è che sia chiaro a tutti che la famiglia è il vero tesoro di questo paese.
    Andrea OLIVERO - Presidente Nazionale delle Acli

    domenica, febbraio 11, 2007

    Roma, vergogna fischi, poi gli applausi. Per gli ultrà la guerra non è finita

    Bilancio positivo nella prima giornata dopo la morte di Raciti
    Anche a Torino la maggior parte del pubblico sovrasta i cori della curva
    Roma, vergogna fischi, poi gli applausi
    Per gli ultrà la guerra non è finita

    ROMA - A Roma i fischi e le spalle degli ultrà, sovrastati dall'applauso del pubblico (ma nessuno dei giocatori va a festeggiare sotto la curva, speriamo non sia un caso). A Torino i cori che disturbano il minuto di silenzio: anche lì, applausi per Raciti. A Palermo una bimba porta una rosa a un agente, a Perugia fiori davanti alla questura. A Bergamo un petardo esplode nella curva vuota. A Verona gli ultrà dell'Inter tifano fuori dallo staido, qualcuno aveva dei petardi. A Marassi, lo sciopero del tifo dei supporter della Samp, che protestano contro un decreto "troppo duro".
    E' stata questa la domenica del calcio, nove giorni dopo la morte dell'agente Raciti. Una maggioranza che applaude, una minoranza rumorosa e, in alcuni casi, stupida. Come se gli ultrà non avessero capito.
    L'episodio più grave a Roma. Per effetto del Daspo preventivo, i tifosi che hanno fischiato e che hanno voltato le spalle al campo potrebbero essere allontanati dagli stadi. Ovviamente la procedura di identificazione è molto difficile.
    "Non sono fischi giustificati - sostiene Rosella Sensi, ad della Roma - ma io ho sentito tutto il resto del pubblico applaudire. Bisogna capire questi momenti e ricordare l'ispettore Raciti. Il calcio riparte con grande senso di responsabilità e cerca di migliorarsi. Vogliamo dimostrare che c'è tanto di bello in questo sport e la maglia che hanno indossato i nostri giocatori prima della partita è un segnale dei tanti che vogliamo dare".
    Il comportamento del pubblico è stato stigmatizzato dagli allenatori Spalletti (Roma) e Zaccheroni (Torino). L'allenatore del Milan Ancelotti ha definito i fischi "inconcepibili".
    Molto scarsa la presenza di tifosi ospiti nei vari campi. In alcuni, come Cagliari, non sono stati nemmeno ammessi. In altri, come Torino, erano pochissimi. (11 febbraio 2007)

    sabato, gennaio 13, 2007

    Convegno annuale di presentazione delle attività dei Centri di Servizio per il Volontariato in Italia




    77 Centri di Servizio per il Volontariato, oltre 400 punti diffusi praticamente su tutte le province italiane, 8.600 associazioni socie, 174.000 le prestazioni effettuate, oltre 70.000 utenti, impiegato quasi il 95% delle risorse assegnate dal fondo speciale per il Volontariato da parte delle Fondazioni di origine bancaria.
    Questi alcuni dati relativi alle attività dei Centri di Servizio per il Volontariato nel 2005.
    Il quadro generale delle iniziative viene presentato nel corso del convegno annuale sabato 13 gennaio a Roma.
    Al convegno intervengono tra gli altri il Ministro per la Solidarietà Sociale Paolo Ferrero, l’on. Mimmo Lucà, Presidente della XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati, Vilma Mazzocco, Portavoce del Forum del Terzo Settore, e molti esponenti del mondo del volontariato del terzo settore.
    per stampare l'invito clicca il titolo del post.