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domenica, gennaio 31, 2010

Niki Vendola a 1/2 ora con la Annunziata


Oggi domenica 31 Gennaio il Presidente della Regione Puglia Nichi Vendola è stato ospite in studio nel programma di approfondimento giornalistico “In Mezz’ora”, in onda su RAI 3 alle ore 14,30, condotto da Lucia Annunziata (poteva essere lei la candidata presidente in Campania)
Un bell'intervento aperto al futuro.....prendendo in carico la storia della sinistra. Vendola porta in avanti i conflitti aprendo un confronto più nel merito ma il caso campano resta aperto e forse...sarebbe meglio chiuderlo.......


E' Nichi Vendola l’ospite di questa settimana della trasmissione diLucia Annunziata.


Confermata la formula degli anni scorsi:
trenta minuti di faccia a faccia con i protagonisti dell'attualità. Un editoriale della domenica, sotto forma d'intervista.

Nonostante l'inedita fascia oraria e la concorrenza con sport e intrattenimento, In 1/2h ha registrato in termini d'ascolto risultati in linea con il palinsesto informativo tradizionale. La media di share con cui si è chiusa la stagione 2008-2009 è di 7.20 per un milione 202 mila ascoltatori, con punte del 12 per cento e oltre un milione e mezzo di ascolto.

La trasmissione va in onda dagli storici studi di via Teulada di Roma.

sabato, gennaio 17, 2009

Michele Santoro e Gaza, la televisione tra narrazione e conversazione




Giovedì sera è andata in scena ad “Anno Zero”, in una trasmissione dedicata ai giovani e Gaza, una rappresentazione chiara del bivio di fronte al quale si trova il più di massa dei media, la televisione. Non è in questa sede importante riprendere le polemiche e giudicare il plotone di esecuzione schierato in queste ore contro Michele Santoro e gli arcangeli e i serafini in fila a santificare Lucia Annunziata. Ma è importante fare un altro tipo di riflessione che concerne il medium.

di Gennaro Carotenuto

Chi va in televisione può fare tre tipi diversi di cose. Può performare, ovvero dimostrare cosa sa fare o cosa conosce, ballare, cantare, far ridere, rispondere a quiz come a “Lascia o Raddoppia”. Può narrare, raccontando fatti reali o inventati, in un reportage o in una telenovela. O infine può conversare, dei massimi sistemi, in maniera aulica o del più e del meno, giù giù fino a “Porta a porta”.

L’imbarbarimento della vita televisiva è dato dal disequilibrio tra questi tre grandi filoni. La performance è di fatto scomparsa. Nell’impoverimento culturale della società i quiz sono diventati idioti perché è fastidioso e controproducente far vincere dei soldi a qualcuno solo perché sa. Per far ridere poi in genere bastano quattro parolacce e qualche allusione sessuale. Perfino nelle vecchie tribune politiche si performava, si sciorinavano dati, si mostrava un eloquio da retori oggi sostituito dalle torte in faccia.

Anche la narrazione in tivù è in crisi. I documentari sono confinati sul satellite e i reportage li fa solo quel comunista di Riccardo Iacona. D’altra parte anche le storie ce le siamo finite e non si può fare una nuova edizione di “Guerra e pace” o “I promessi sposi” ogni 10 anni. Del resto “il pubblico non capirebbe”. Le soap poi sono un surrogato di conversazione tanto che molti format e reality sono delle soap camuffate.

La conversazione quindi trionfa in tutte le sue forme. Chiacchiere più o meno vuote nelle isole dei famosi, chiacchiere rigorosamente vuote nei programmi di approfondimento giornalistico, Porta a porta, Ballarò eccetera. Oramai i politici vanno in tivù (probabilmente imbottiti di stupefacenti) aspettando solo il momento di alzare la voce e avventarsi sulla controparte perché è sul wrestling che ritengono che il popolo bue li giudichi.

In questo modo tutto può passare, si può far passare come esperto un fanatico destinato al girone degli iracondi come Edward Luttwak, oppure trattare come statisti personaggi con condanne gravi come Marcello dell’Utri. Basta far sparire i fatti, anche se si parla di argomenti serissimi. In questo modo una ragazza messa lì ad accavallare le gambe può essere chiamata a parlare (sic) di genetica o di Resistenza e il suo punto di vista essere anteposto a quello di Rita Levi Montalcini o Claudio Pavone che hanno dedicato ai rispettivi campi di studio tutta la vita.

Il meccanismo è perverso. Per poter far credere ai telespettatori che la guerra è bella, che la precarietà è un bene, che gli immigrati sono cattivi o che la mafia non esiste devono sparire i fatti, la narrazione dei fatti. Solo così possono essere contrapposte su un piano di parità tesi che pari non sono.

Cosa c’entra con tutto ciò Michele Santoro?

Michele Santoro, nella trasmissione di giovedì sera non fa bella figura e forse non ha nemmeno il pieno controllo sull’evoluzione della stessa. Fa un errore marchiano dicendo all’Annunziata “stai acquisendo dei meriti nei confronti di qualcuno”, ha ragione ma la fa passare da vittima, ma soprattutto commette (il secondo probabilmente in maniera preterintenzionale) due peccati capitali.

Il primo peccato capitale è che ha proposto dei frammenti di narrazione giornalistica in un contesto che è percepito come destinato solo alla conversazione. Ha mostrato le immagini. E le immagini parlano, non sono neutre. Se i fatti narrano, come ha dimostrato il reportage di Lorenzo Cremonesi sul “Corriere”, o il successo del blog di Vittorio Arrigoni da Gaza, ipotecano il dibattito che non può più prescindere da esso. A quel punto non esistono più due realtà virtuali contrapposte per par condicio. Ci sono i fatti che pendono da un lato, piuttosto che dall’altro. Non puoi più cambiare argomento, alzare la voce, tergiversare. Devi commentare quello che vedi senza eluderlo. Questo per lo stato attuale dell’informazione in Italia è intollerabile.

Di cosa è accusato Santoro? Di strumentalizzazione. Di cosa? Dei fatti. Come se si potesse prescindere da essi. Come ha calcolato Elia Banelli su Agoravox gli ospiti di Santoro giovedì erano perfettamente in equilibrio tra pro-israeliani e filo-palestinesi. Nel paese della par condicio è indispensabile che così sia anche se si parla di calcio. Nello specifico, se si mostra come ha fatto Santoro il fatto che i morti in Medio oriente sono in una proporzione di cento palestinesi per ogni israeliano e che un terzo di tali morti sono bambini si viene accusati di fare un’operazione di propaganda filopalestinese o addirittura filo-Hamas (che non è lo stesso ma tutto serve per estremizzare i toni). In realtà i palestinesi in trasmissione, a partire da Rula Jebreal, erano contro Hamas o agnostici.

Il problema allora non era nel dibattito; era nei fatti con i quali i politici e (quel che è peggio) i giornalisti non sono più abituati a fare i conti. Se i fatti, la proporzione di 100 morti contro uno, pendono a favore di una parte, i fatti stessi sono considerati una intollerabile deviazione rispetto alla par condicio che serve a dire tutto e il contrario di tutto. Quando crollò l’Argentina neoliberale l’unica maniera di difendere le politiche del Fondo Monetario Internazionale era prescindere dai fatti: sul dilagare della povertà, sulle morti per fame, sulla disoccupazione strutturale in un paese abituato alla piena occupazione, su un paese deindustrializzato dal modello bisognava glissare. Anche allora i fatti infastidivano chi voleva negare l’evidenza. Oppure leggete le dichiarazioni degli avvocati difensori dei manager della Thyssen Krupp su cosa pensano del “clamore mediatico”, ovvero dei fatti?

Con i fatti, i bambini morti, diviene impresentabile un Andrea Nativi che magnifica la straordinaria efficacia delle bombe a frammentazione o al fosforo o che ci vuol convincere che è normale per chi guida un elicottero d’assalto far tante vittime civili. Chi ha visto la trasmissione ha osservato la stizza di Nativi stesso ogni volta che veniva mostrato un frammento di narrazione su quello che si vede che è successo a Gaza, i fatti.

Sembrava dire, Nativi, “ma se mostrate i fatti le mie chiacchiere perdono peso, nessuno crede più che le armi siano bellissime. Non è giusto, se narrate i fatti allora il dibattito non è più equilibrato”. Squilibrato dai fatti. Nessuno infatti ha messo in dubbio gli effetti nefasti e criminali dei razzi sul Neghev. Il problema è che i razzi su Sderot o Ashkelon restano intollerabili solo fino a che non vengono paragonati a quanto sta accadendo a Gaza, fino a quando una narrazione artificiosa dei fatti fa credere che i tre (3) morti causati dai razzi di Hamas in tre settimane siano equivalenti (o addirittura più gravi) agli oltre mille causati da Tsahal.

Il secondo peccato capitale di Michele Santoro è di aver sostituito per la conversazione i soliti navigati politici, giornalisti, docenti universitari, pronti a mettere in scena il solito teatrino stando alle regole del gioco, con dei ragazzi. Dei ragazzi italo-israeliani e dei ragazzi italo-palestinesi. Dei ragazzi, soprattutto le due ragazze, che hanno scatenato la reazione di Lucia Annunziata, che hanno usato i mezzi conversazionali del XXI secolo: hanno strillato come matte.

Entrambe presentabili, parlando un ottimo italiano, sufficientemente colte, carine, sicuramente entrambe in buona fede, hanno sbattuto l’una sulla faccia dell’altra gli argomenti di un conflitto irrisolvibile con le armi, dove non tutto è bianco né nero (come sostengono la Annunziata o Claudio Pagliara o in maniera speculare i fan italiani di Hamas, “intifada fino alla vittoria”).

A quel punto, con quelle due oneste ragazze, l’italo-israeliana e l’italo-palestinese, completamente fuori controllo a rinfacciarsi l’una all’altra 60 anni di conflitto e di pregiudizi il re era nudo. Il re della televisione. La tivù, quando sostituisce la narrazione con la conversazione, quando si mostra equidistante, in realtà sta solo prendendo le parti di chi è più distante dai fatti, per farsi strumento di dominio e di falsificazione della realtà stessa.

Il palesamento di questa realtà, per una ex-presidente della RAI come l’Annunziata, non era accettabile: “Michele, questo conflitto in mano a due ragazze non si può mettere”. L’unica conversazione possibile è un minuetto tra cicisbei che urlano, strepitano ma stanno al gioco. Se si sostituiscono con due ragazze in buona fede il castello di carte cade. E, di nuovo, restano i fatti.

Giornalismo partecipativo (clicca sul titolo)

venerdì, gennaio 09, 2009

Iervolino: "Walter mi ha pregata di non mollare"

Il sindaco di Napoli: qui la politica
è cattiva, più che a Roma
LUCIA ANNUNZIATA
NAPOLI
Parliamo del registratore e togliamocelo dai piedi. Più o meno è questo lo sbrigativo approccio con cui il Sindaco di Napoli Rosetta Iervolino inizia l'intervista. Affatto pentita dell'uso dello strumento; convinta che ora bisogna mettere da parte la vicenda "perché ci sono tante cose più importanti da discutere, ed ora di calmare le acque". Ma, come sempre, dannatamente sincera. Una macchina tritasassi, non appena apre la bocca.

Le registrazioni che aveva promesso di non rendere pubbliche oggi sono uscite... «Non da me, ma forse dalla memoria di chi parlava con me e si è sentito tirato i ballo...».

Pentita di aver usato l'aggeggio?
«No, assolutamente. Tra l'altro non lo so nemmeno manovrare. Ma ribadisco che ho detto a Teresa Armato che il registratore era la condizione per parlare con il Pd. Del resto, se si è in buona fede non si hanno problemi a parlare».

Dunque lei dice che Nicolais e Iannuzzi sapevano del registratore?
«Ripeto, l'ho detto a Teresa Armato di fronte a due testimoni. Se poi Teresa non glielo ha detto non mi interessa. Sono stufa di questa storia. E poi se i presenti non avevano gli occhi per vedere non ci posso fare nulla. Basta così però, è ora di smorzare questa storia ...».

Però l'uso del registratore dimostra che non si fida dei suoi interlocutori del Pd.
«Di alcuni interlocutori. Avevo già sperimentato in precedenza che decisioni prese in concordia in privato sono state negate in pubblico, per cui...».

Parla sempre di Nicolais e Iannuzzi.
«Certamente».

Ma che gioco fanno? Cosa non le piace?
«Non mi piace rispondere a questa domanda non voglio riaccendere le beghe. Mi auguro solo che loro facciano l'interesse del partito, e io, come sindaco, della mia città».

Un rapporto molto drastico direi. In questo periodo in cui è in difesa, sembra di vedere una nuova Iervolino, capace di resistenza e scontro , rispetto alla figura molto istituzionale del pasato.
«Non so se è nuova o se solo non è mai stata notata prima. Io sono sempre stata un po' più matta di quel che appare. Come cattolica e madre di quattro figli sono sempre stata composta, ma io la rivoluzione ho cominciato a farla dall'Università, scrivendo a quei tempi una tesi sulla parità dei sessi. Così come mi vanto del fatto che una delle leggi più liberali, quella sul cambio di sesso, l'ho fatta io insieme alla mia amica Giglia Tedesco. E poi, la pare, sono stata la prima donna Ministro degli interni».

Non c’è dubbio però che Lei in tutti questi anni si e' tenuta nel Pd molto defilata. «Defilata si, ma a mio merito. Il fatto è che io non ho mai avuto pacchetti di voti. In casa mia ci sono state sempre solo due tessere, la mia e quella di mio padre. Dalla sua morte nel 1985 solo la mia. Mi hanno sempre chiamata solo per i compiti difficili, come quando insieme a Martinazzoli facemmo piazza pulita degli inquisiti della Dc».

Come descrive il suo rapporto con il Pd?
«Di grande desiderio. Per me il Pd nasce nel 1994 quando durante la battaglia contro la finanziaria di Berlusconi facemmo i primi interventi concordati con gli ex Pci. Può immaginare che speranza ho avuto?».

Una speranza che continua ancora?
«Diciamo che continuo a coltivarla».

Molti dicono che il Pd non si è comportato bene sulla questione Napoli. Indeciso, indiretto, senza un orientamento. Quale è il suo bilancio?
«Il fatto è che a Napoli il Pd dovrebbe discutere su Israele e Palestina non se quello fa o meno l'assessore».

Mi scusi, ma non la seguo. A Napoli si parla degli assessori perché nella Giunta si sono scoperte delle mele marce.
«Attenzione, le mele marce le abbiamo cacciate io la magistratura. Gambale ad esempio, con eccellente storia, focolarino, eletto tante volte, antimafia: io non me ne sono accorta, e me ne prendo la responsabilità. Ma neanche loro del Pd! Il litigio attuale sulla giunta non è sul passato ma su chi nominare, e per me alcune delle loro obiezioni sono inaccettabili perché il primo rimpasto per cambiare l’ho fatto da sola a giugno. Il loro problema è di mettere altri da quelli che io volevo. Ma io ho la mia autonomia, per legge».

C’è stato insomma nei suoi confronti da parte del Pd una sorta di mobbing, di pressione al fine di indebolirla?
«Si, e c’è stata una rabbia da morire quando hanno visto che i nervi non mi saltavano. Ma sa, io avevo un bellissimo marito, professore universitario, medico, somigliava a Tyron Power, ma era malato marcio di cuore. Ho vissuto tutta una vita a far finta che la paura non ci fosse, per dare a tutti una vita normale. L'unica che lo sapeva era Giglia Tedesco che quando mi vedeva pallida e vicino al crollo mi diceva solo "su Rosetta, vai dal parrucchiere". Ho fatto una tale scuola in quegli anni, che ogni mattina mi sveglio, penso ai miei figli e ai miei nipoti, so che stanno bene e questo è tutto quel che mi basta».

Dunque mai un momento di nervi a pezzi?
«Intendiamoci: quando hanno arrestato i 4 assessori non ho perso tempo. Dopo mezz’ora ero in macchina per Roma dove mi sono consigliata con Walter. Gli ho detto che facciamo, sono a disposizione. E Walter, insieme a Franceschini, Fioroni, Nicolais mi hanno detto chiaramente "Vai avanti, tu sei pulita, fai il rimpasto più ampio possibile". Insomma io mi sono posta il problema e mi sono messa a disposizione. Ho ricevuto anche tanta solidarietà: da Ciampi, da Scalfaro, da Mattarella...».

Mi sembra di capire da tutto quel che dice che lei ha un contenzioso soprattutto nei confronti di Nicolais, non del Pd tutto.
«E’ una persona di gran valore ma credo abbia chi non lo consigli bene. Mi è spiaciuto che si sia dimesso, non ne vedo ancora le ragioni».

Il Commissariamento da parte di Morando è secondo lei un aiuto o una sconfitta per il Pd napoletano?
«E' una decisione. Non concordata con me e secondo me non necessaria, ma ora che c’è rendiamola utile».

Bassolino. Come descrive i rapporti fra voi? Non mi pare si sia sprecato molto a difenderla.
«Di rispetto reciproco. Devo riconoscergli che non ha mai fatto il padre padrone. D'altra parte se volevano un sindaco malleabile non avrebbero scelto me».

Entrambi però avete segnato una sconfitta politica, al di là delle vicende giudiziarie. Eppure non abbiamo mai sentito una autocritica da lei.
«Per carità, solo un cretino non se le fa. Io me le faccio ogni sera prima di dormire. Ma provateci voi a guidare una città senza soldi, quella con la maggiore povertà. Che avrebbe fatto Chiamparino ad esempio se non avesse avuto le Olimpiadi invernali?».

Però, ripeto, dei 4 consiglieri non se n’è accorta
«Come no. Il più fetente, Gambale l'ho cacciato a giugno, e le gare approvate dal consiglio comunale sono state bloccate dal sindaco in persona!».

Dunque sapeva e non faceva nulla?
«Sospettavo. Di sicuro più di chi li ha sempre sostenuti e li ha eletti più di una volta».

Dopo 7 anni che rapporto ha stabilito con Napoli?
«Di affetto. E' dopotutto la città mia e della mia famiglia. Ma la politica a Napoli è molto cattiva, più di quella di Roma».

Davvero? Mi sorprende.
«Si. A Napoli la gente ti attacca personalmente appena può e anche se non può. Nella politica in Parlamento non ho mai avuto una offesa. A differenza di qui. Riparlo di Gambale, che mi ha chiamato scema con Romeo. Un esempio».

Perché? E' un riflesso di una cultura camorrista, cioè aggressiva, anche nelle istituzioni?
«Non andrei così lontano. Ma certo Napoli è il luogo degli eccessi e delle diverse verità e comportamenti in pubblico e in privato».

domenica, dicembre 07, 2008

Iervolino all'Annunziata: mani nette, nettìssime. I poteri forti rispettino le regole.



Rosa Russo Iervolino dice: si può fare politica con le mani pulitissime!





Il Sindaco di Napoli Rosa Iervolino con Leonardo Dominici è l'ospite della undicesima puntata dell'edizione 2008-2009 di "in 1/2h".

Confermata la formula degli anni scorsi: trenta minuti di faccia a faccia con i protagonisti dell'attualità. Un editoriale della domenica, sotto forma d'intervista.

Nonostante l'inedita fascia oraria e la concorrenza con sport e intrattenimento, In 1/2h ha registrato in termini d'ascolto risultati in linea con il palinsesto informativo tradizionale. La media di share con cui si è chiusa la stagione 2007-2008 è di 8.12 per un milione 317 mila di ascoltatori, con punte del 12 per cento e oltre un milione e mezzo di ascolto.

Confermato il team della scorsa edizione. In redazione, Roberto Bagnoli, Stefano Baldolini, Silvia Barocci, Sara Bianchi, Gianni Del Vecchio, Francesco Lo Sardo e Luigi Mattucci. Completa lo staff Tiziana Piazza per Rai Tre. Regista rimane Maurizio Fusco.
La trasmissione va in onda dagli storici studi di via Teulada.

lunedì, maggio 14, 2007

Sinistra ascolta S. Giovanni: un articolo di Lucia Annunziata per far riflettere e discutere

Vabbè, capisco. Un milione di persone cosa volete che sia? Per altro non è nemmeno sicuro che siano state davvero un milione, perché si sa che in questi casi gli organizzatori esagerano. Così come si sa che quando ci sono le parrocchie di mezzo la folla si fa subito, e infatti che tipo di folla era, alla fine? Brutti, brutti, brutti persino peggio di quelli di Cl che almeno hanno l’estetica giusta, visto che sono espressione del Nord. Poi, se non bastasse, non avete guardato le tendenze demografiche, non avete forse visto che i dati ci danno ragione, in Italia, e anche in America, aumentano le famiglie senza matrimonio, e i figli fuori dal matrimonio? Mi arrendo, dunque, alla valanga di rassicurazioni che i pensatori, i leaders (e un po’ di basso cicaleccio) della sinistra, oggi tutta in versione «esperta di Vangelo», mi dicono per aiutarmi a dimenticare presto la giornata del Family Day. Nulla è successo, tutto è come prima.

Personalmente, i Vangeli non li sfoglio con frequenza, ma qualche conto con le mani, senza scomodare un pallottoliere, credo di saperlo ancora fare: e secondo questi conti, in un Paese in cui la coalizione al governo ha vinto per ventimila voti, c’è un’alta possibilità che quei ventimila voti fossero domenica in quella piazza. Se si aggiunge che la manifestazione è stata organizzata da Savino Pezzotta, uomo non esattamente sconosciuto alla sinistra, e da Luigi Bobba, senatore a pieno titolo del nuovo Pd, i dubbi sulla presenza di quei ventimila voti si fanno quasi certezza. Era davvero scontato, ed è oggi davvero indifferente, che quella piazza non sia stata parte delle mobilitazioni del centrosinistra? Sullo scontato non possiamo pronunciarci, visto che con i se non si va da nessuna parte; quanto all’efficacia basta guardarsi intorno.

I coraggiosi della laicità a Piazza Navona hanno messo su una bella festa, ma con lo sguardo rivolto indietro, rivelando di quanta nostalgia siano intessute le loro aspirazioni di oggi. La lontana equidistanza in cui si sono rifugiati i Ds ha negato quella che è, ancora oggi, la loro migliore qualità: la forza di stare in mezzo alle cose. Più che in ascolto sono apparsi così in imbarazzo. Ma il vero disastro ha attraversato come una lama i cattolici del futuro Partito Democratico: con Acli, Sant’Egidio, sindacato in piazza, e Bindi (e simili) a tentare freneticamente di lanciare un ponte qualunque con quella stessa piazza: chi pensa che una conferenza nazionale sulla famiglia sia una ottima risposta a tanti cattolici in piazza alzi la mano.

Del resto, dicono i commentatori, spaccare, infilare questo paletto nel cuore della unità dei cattolici del futuro Partito Democratico era proprio lo scopo di questa manifestazione. Se questo era l’obiettivo di Pezzotta, dei focolarini, e della Chiesa abbiamo solo da congratularci con loro: l’obiettivo è stato raggiunto. La domanda rimane: com’è possibile che gli italiani che vogliono difendere la famiglia - obiettivo in sé non così disprezzabile (dopotutto non si trattava di svastiche o croci uncinate) - partiti con Savino Pezzotta siano arrivati poi sotto il cappello di Silvio Berlusconi. Ed è una domanda cui la sinistra ancora non ha dato risposta. Sostenere infatti che questo sia il risultato di una enorme pressione della Chiesa, o di una abilità tattica della destra, non è credibile. La Chiesa era molto più forte e attiva nel lontano 1974, eppure il referendum vinse. E il centrodestra appare oggi più confuso e diviso del centrosinistra: persino in piazza San Giovanni domenica i suoi leader sono riusciti a litigare.

Invece di guardare indietro alla gloriosa data del referendum sull’aborto, il pensiero del centrosinistra avrebbe dovuto forse rivolgersi a un altro referendum, quello sulla procreazione assistita, perso drammaticamente pochi anni fa. Dopo quella sconfitta la sinistra avviò una riflessione sul proprio stesso voto, che aveva rifiutato quella scelta. Si disse, allora, che evidentemente stava crescendo nella popolazione italiana una ricerca intorno all’etica pubblica e privata dai profili diversi, in cui si coniugava il desiderio di cambiamento a un bisogno di certezze. Famiglia, Stato, cittadinanza, sicurezza sono del resto in tutta Europa (nelle analisi dello stesso centrosinistra) il grumo intorno a cui si desidera trovare quella solidità che serve ad affrontare tutto un mondo in rapida evoluzione: aperto dalla rottura delle frontiere dell’economia, della scienza e delle nazioni. Riflessioni che sono state riproposte recentemente anche dalle trasformazioni in corso in grandi Paesi guida come l’Inghilterra, e poi la Francia. Nazioni in cui nuove domande economiche e spirituali hanno - secondo l’opinione di tutti - provocato la fine dell’idea tradizionale di destra e sinistra.

Dunque, perché non riconoscere che sui temi della famiglia, dei diritti, della sicurezza, è al lavoro anche in Italia questa talpa che lentamente cambia la coscienza pubblica, inclusa quella di sinistra? Si è preferito invece dare vita a una vecchia competizione fra laici e cattolici, in cui, se di questo si tratta, si è finito con il dare la vittoria alle forze più conservatrici.

Certo, i principi sono importanti, e la politica è innanzitutto difesa di principi: non si può ammainare la bandiera della laicità. Ma se questi principi non si è capaci di trasformarli in provvedimenti reali, perché mancano i numeri nello stesso governo, perché c’è dissenso nella stessa base delle forze politiche che li propongono, perché c’è divisione nel Paese, bisognerà almeno dirsi che questa politica è inefficace? Se di recente c’è stato caso più perfetto di errata gestione di un percorso politico, certo io non lo ricordo.
(Lucia Annunziata su La Stampa di oggi. clicca il titolo)

giovedì, marzo 29, 2007

LUCIA ANNUNZIATA: PERCHÉ ANDRÒ AL FAMILY DAY

Le ragioni per andare al Family Day, anche per un cittadino che appoggia i Dico, anche al fianco delle organizzazioni cattoliche più conservatrici, sono, a mio parere, scritte nel Dna stesso della sinistra... di Lucia Annunziata.


Andrò al Family Day. Decisione individuale e privata di un elettore qualunque dell’Ulivo. Ma se persino nel più «laico» dei partiti della coalizione di governo, quale i Ds, ci sono segnali di una riflessione in merito, forse è tempo che una serie di scelte individuali vengano dichiarate.

Le ragioni per andare al Family Day, anche per un cittadino che appoggia i Dico, anche al fianco delle organizzazioni cattoliche più conservatrici, sono, a mio parere, scritte nel Dna stesso della sinistra.

1) Nella storia del movimento operaio, la famiglia è sempre stata un punto fermo della propria identità sociale; l’istituzione a cui, nell’esperienza concreta delle classi popolari, si è ancorata la solidarietà più generale, formata a immagine e somiglianza proprio delle relazioni solidali che la famiglia offre. Il movimento operaio e i suoi dirigenti hanno sempre abbracciato (fino al moralismo) un sistema di vita personale e familiare di massima austerità, indicando in questa scelta una intera scala di valori che si opponeva orgogliosamente alla «libertà» con cui il mondo borghese viveva i suoi legami familiari. In Italia la famiglia operaia è stata così elemento propulsore nella creazione della società opulenta di oggi: dagli anni dell’immigrazione ai sacrifici per le scuole ai figli, ai sacrifici per comprare casa, è nell'ambito familiare che le classi più povere hanno trovato il parametro per speranze e riscatto. Infine, dentro la famiglia come luogo innovativo per nuove parità e nuove libertà è passata anche (in negativo e in positivo), più di recente, tutta l’ambizione a nuove relazioni umane. I figli omosessuali, o quelli che non vogliono più il matrimonio tradizionale, i ribelli e i single, l’Italia tutta che vuole i Dico, insomma, esce da questa esperienza familiare consolidata: e nella vita reale è nell’ambito delle famiglie che le irregolarità trovano spesso soluzione. Ancora oggi il popolo della sinistra rivendica così l’orgoglio di scelte familiari etiche - nel rispetto della propria tradizione. La famiglia non è affatto un valore soltanto cattolico.

2) Le ragioni della cronaca e della politica stanno modificando l'immagine della sinistra. Un trans è entrato in Parlamento; la foga della battaglia con la Chiesa ha spostato i Dico su toni di estremismo omosessuale; e la stessa foga di difesa politica ha portato la sinistra ad affrontare il caso Vallettopoli e Sircana rifugiandosi in una sorta di indifferenza di giudizio - con quella frase ripetuta «nel privato ognuno fa quello che vuole». Ma davvero è così? Davvero non ci sono limiti se non quelli dei bigotti alle scelte delle persone? È davvero perfettamente indifferente cosa si fa nel privato - indifferente, ad esempio, nella nostra difesa della dignità delle donne, nel rifiuto dello sfruttamento (sessuale oltre che materiale?); indifferente nella educazione dei figli, nella delineazione di una società diversa? Il rischio insomma è che la sinistra finisca schiacciata oggi, al di là della sua volontà, nel ghetto di una somma di differenze indifferenti. Dire un sì deciso all’idea di famiglia serve anche a strapparsi da questo possibile ghetto.

3) La sinistra è oggi al governo - deve dunque continuare a raccogliere consenso per continuare i suoi progetti. Rompere con la Chiesa, e ancora di più con le organizzazioni cattoliche, è un calcolo che non ha senso neppure dal punto di vista - minimo ma necessario - dei numeri. A chi giova dunque, ed ecco la terza ragione per sfilare nel Family Day, spaccare il dialogo sociale?

È una ragione forse eccessivamente tattica, ma anche squisitamente politica. Perché ripropone al governo di centrosinistra un dilemma decisivo: se cioè nel governare un Paese conti più la battaglia di identità o la costruzione di coesione sociale. La risposta data a questa domanda è stata finora a favore delle identità: la legge sui Dico è diventata infatti infinitamente più rilevante di quello che è nella realtà del Paese per il suo significato simbolico. Ma ai fini del bene pubblico, non è forse più rilevante la possibilità di costruire intorno a un principio una identità condivisa, magari costruita nel tempo, ma decisamente più ampia? Recenti sondaggi sul calo di popolarità del governo sostengono che i Dico vi giocano un grande ruolo: non è questo forse un monito?


Lucia Annunziata