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domenica, novembre 13, 2011

Un cittadino al servizio del Paese Il programma di Monti: efficacia e urgenza, crescita e rigore


di Eugenio Scalfari



Mentre scrivo queste mie riflessioni domenicali Giorgio Napolitano ha ricevuto la lettera di dimissioni del presidente del Consiglio, salito al Colle tra la folla che gli urla "buffone" e canta l'Inno di Mameli. E mentre oggi il nostro giornale è nelle edicole le consultazioni al Quirinale sono già cominciate e dureranno per l'intera giornata.



Non sarà una giornata facile quella del Capo dello Stato. Le forze dell'opposizione - tutte senza alcuna eccezione - indicheranno Mario Monti e un esecutivo di soli tecnici per portare l'economia italiana fuori dal disastro che ne sta devastando la stabilità dei cosiddetti "fondamentali": al tempo stesso la competitività e la coesione sociale.



Ma l'ex maggioranza aggiunge a questo quadro già di per sé assai fosco un ulteriore tasso di drammaticità che la dice lunga sulla natura dei due partiti che la compongono, il Pdl e la Lega. La dice lunga sul prevalere dei loro gruppi dirigenti, degli interessi individuali, settoriali e clientelari su quelli generali della Nazione e quindi sulla loro irresponsabilità di fronte alla crisi che sta imperversando su tutto l'Occidente.

Il gruppo dirigente del Pdl è spaccato in due tra chi si oppone alla candidatura di Monti e chi l'accetta come l'unica via d'uscita possibile. Quanto alla Lega il suo vero obiettivo sono le elezioni immediate e la separazione dal Pdl per non subirne il contagio d'una inevitabile sconfitta elettorale.



Berlusconi galleggia nel mare tempestoso che lo circonda ma, dalle sue recenti sortite, dai suoi cambiamenti di rotta improvvisi, dalle proposte assurde e dagli anatemi ripetitivi, dà l'impressione d'essere in uno stato di stordimento e di incoerenza totale, come un pacco sballottato nella stiva d'una nave che imbarca acqua dalle falle del suo sconnesso fasciame.



È evidente che la disgregazione del Pdl complica ulteriormente il quadro; è anche evidente che il Capo di quel partito non è più in grado di comandare ma è altrettanto evidente che non c'è nessuno in grado di sostituirlo. E tuttavia i voti in Parlamento dei deputati e dei senatori berlusconiani sono un ingrediente significativo per la sussistenza d'un governo di emergenza.



Per risolvere questo problema Napolitano ha dodici ore di tempo. Conoscendone le capacità politiche, la lucidità delle intuizioni e la dedizione al bene comune, confidiamo nella sua riuscita. In mezzo a tanti guai, errori e manchevolezze che hanno agitato la storia del nostro Paese negli ultimi vent'anni, abbiamo però avuto la fortuna di tre presidenti della Repubblica, Scalfaro, Ciampi, Napolitano, che hanno costituito l'antemurale difensivo della Repubblica contro le ondate del populismo, della demagogia e dell'avventura.



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Prima di fare il punto aggiornato sulla situazione della finanza e dell'economia italiana di fronte ai mercati che lunedì daranno il loro giudizio sulle decisione politiche che nel frattempo saranno state prese, va chiarita una questione importante che finora ha diviso la pubblica opinione: l'eventuale nascita d'un governo Monti rappresenta la sconfitta della politica e la vittoria della tecnocrazia? Un governo di tecnici che confisca i diritti del popolo sovrano?

Napolitano, più volte interrogato in varie occasioni pubbliche su questo argomento, ha dato una risposta definitiva: "Non esistono governi tecnici poiché un governo, comunque composto, ha bisogno per esistere d'ottenere la fiducia del Parlamento, cioè dei rappresentanti del popolo depositari pro tempore della sovranità popolare". Del resto la nomina di Mario Monti a senatore a vita e in quanto tale membro del Senato a tutti gli effetti è stato un elemento in più, mirato a rafforzare la politicità dell'eventuale candidato.

Ma aggiungo un'ulteriore considerazione: le dimissioni di Berlusconi non sono un evento caduto dal cielo; sono avvenute a causa d'una sconfitta parlamentare in occasione del voto sul Rendiconto generale dello Stato, avvenuto la scorsa settimana. Quel Rendiconto è un atto fondamentale nella vita dello Stato perché senza la sua approvazione non si può approvare né la legge di Bilancio né la legge Finanziaria.

In quell'occasione le opposizioni, rafforzate da un gruppo di dissidenti usciti dalle file del Pdl, decisero di astenersi e in questo modo di contarsi e di contare i voti della maggioranza. Il risultato fu duplice: da un lato il Rendiconto fu approvato come era assai opportuno per non bloccare la macchina dello Stato; dall'altro il risultato della conta fu di 308 voti della maggioranza e di 321 voti dell'opposizione. Poiché la maggioranza, per esser tale, deve avere almeno 316 voti, da quel giorno ha cessato di esistere tant'è che Berlusconi, responsabilmente, andò al Quirinale e presentò le proprie dimissioni "a scadenza". La scadenza è arrivata oggi ed oggi infatti quelle dimissioni sono diventate esecutive.



Conclusione: la caduta di questo governo è avvenuta in Parlamento ed è stata un evento politico a determinarla, con buona pace di chi continua a parlare d'una politica asservita al dominio dei tecnocrati.



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Per completare quanto scritto fin qui voglio ora trascrivere l'inizio del discorso che Carlo Azeglio Ciampi pronunciò davanti alle Camere il 6 maggio del 1993, dopo essere stato nominato presidente del Consiglio da Scalfaro. Sono parole di estrema attualità, forse non diverse da quelle che dirà Monti in analoga eventuale circostanza.

"È per la prima volta nell'applicazione della Costituzione repubblicana che un semplice cittadino, senza mandato elettorale, parla davanti a voi nelle funzioni di presidente del Consiglio ed io sento innanzitutto di dover testimoniare in quest'Aula il rispetto profondo, l'amore civico mai venuto meno, l'orgoglio degli italiani per le istituzioni rappresentative. La storia della democrazia italiana, della progressiva attuazione dei suoi valori, dello stesso avanzamento civile del nostro Paese, coincide con la storia del Parlamento.

Con grande emozione sono qui per ottenere la vostra fiducia non soltanto ai sensi dell'articolo 94 della Costituzione, ma in un senso molto più largo. Intendo una fiducia che prescinda dalla contabilità dei voti dati o dei voti negati. Mi riferisco ad una fiducia morale del Parlamento anche da parte da chi riterrà di dare voto negativo riconoscendo però l'utilità e forse la necessità e l'onestà dello sforzo che questo governo si propone di compiere.



Come la stragrande maggioranza dei nostri concittadini, guardo con speranza al moto di profondo rinnovamento che attraversa il Paese".

Quel governo durò un anno ponendo le basi della ripresa economica e morale. Votò anche la riforma della legge elettorale e poi si dimise avendo assolto al compito che gli era stato affidato. Purtroppo dopo di lui arrivò Berlusconi e sappiamo che cosa è avvenuto e quale sia stata la devastazione delle istituzioni che ne è seguita.

Ora siamo ad una svolta e mi è sembrato che rileggere le parole di Ciampi sia di buon auspicio per il futuro.



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Ed ora facciamo il punto dell'economia, lo stiamo facendo ogni settimana perché ogni giorno i mercati operano sotto stelle diverse e spesso addirittura sotto cieli coperti di nebbia e di nuvole.

Quella alle nostre spalle è stata una settimana di tregenda, conclusa da due giorni di pausa e di respiro in attesa del meglio. Per i mercati il meglio è Monti il peggio è l'incertezza e l'indecisione.

Nei giorni di tempesta lo "spread" è arrivato a 600 punti dal "Bund" tedesco e il rendimento dei nostri titoli pluriennali ha raggiunto il 7,10 per cento, un livello che provocherebbe l'avvitamento del sistema se non fosse un picco ma diventasse uno standard. Il professor Penati ha spiegato su queste colonne che un rendimento del 7 per cento provocherebbe illiquidità nelle banche e poi insolvibilità. Penati teme che questi fenomeni siano già in atto. Forse è troppo pessimista ma ci va vicino. Personalmente penso che una terapia sia ancora possibile purché applicata con urgenza. Credo sia questo il programma di Monti: efficacia e urgenza, crescita e rigore. Ho scritto altre volte, parafrasando Draghi, Roubini e Stiglitz, che a questo a punto i provvedimenti di crescita sono più urgenti del rigore perché consentono un rigore "sano". Senza crescita il rigore diventa una tremenda malattia che si chiama deflazione e recessione.



Concludo sul tema di eventuali elezioni anticipate. Ci sono ragioni che le sconsigliano ed altre che le motivano tirando in ballo il popolo sovrano. Ma ce n'è una che è decisiva e definitiva: le elezioni significano a dir poco due mesi di campagna elettorale, due mesi dominati dall'incertezza del risultato. Una festa per i ribassisti che avrebbero una prateria a disposizione in una fase di scadenze massicce dei nostri titoli pubblici. Per di più con un'ipotesi di maggioranze diverse tra Camera e Senato e quindi con un'incertezza protratta ancora oltre i risultati.



Pare che i sostenitori di elezioni immediate siano sordi da quest'orecchio. Portano l'esempio di Spagna e Grecia ma si tratta d'un esempio profondamente sbagliato: la Spagna non ha i titoli in scadenza come noi e la Grecia ha già un debito sovrano svalutato del 50 per cento. Il nostro debito è il terzo del mondo e se salta, salta l'euro. Il punto è questo. Perciò noi facciamo il tifo per Monti.



http://www.repubblica.it (13 novembre 2011)

lunedì, agosto 30, 2010

Il massacro dimenticato di Pontelandolfo Quando i bersaglieri fucilarono gli innocenti


Il 14 agosto 1861 per vendicare i loro quaranta morti i soldati sabaudi uccisero 400 inermi. Un eccidio come quello delle Fosse Ardeatine. Il sindaco oggi si batte perché alla città sia riconosciuto lo status di "martire". E promette: se l'esercito chiede scusa, invitiamo la loro fanfara a suonare come atto di riconciliazione

di PAOLO RUMIZ
Il massacro dimenticato di Pontelandolfo Quando i bersaglieri fucilarono gli innocenti

Illustrazione di Riccardo Mannelli

SIGNOR presidente della Repubblica, signori ministri, autorità incaricate delle celebrazioni del centocinquantenario, questa storia è per voi. Non voltate pagina e ascoltate il racconto di questo soldato, se credete al motto "fratelli d'Italia" e tenete all'onestà della memoria sul 1861, anno uno della Nazione.

"Al mattino del giorno 14 ricevemmo l'ordine di entrare nel paese, fucilare gli abitanti, meno i figli, le donne e gli infermi, e incendiarlo. Subito abbiamo cominciato a fucilare... quanti capitava, indi il soldato saccheggiava, ed infine abbiamo dato l'incendio al paese, di circa 4.500 abitanti. Quale desolazione... non si poteva stare d'intorno per il gran calore; e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case. Noi invece durante l'incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava". Olocausto firmato dagli Einsatzkommando? No, soldati italiani, al comando di ufficiali italiani. E il villaggio non sta in Etiopia ma in Italia, nel Beneventano. Il suo nome è Pontelandolfo. Massacro a opera dei bersaglieri, data 14 agosto 1861, meno di un anno dopo l'ingresso trionfale di Garibaldi a Napoli. Pontelandolfo, nome cancellato dai libri perché ricorda che al Sud ci fu guerra, sporca e terribile, e non solo annessione.

Andiamoci dunque, luogotenente Cariolato, per capire cosa accadde; perdiamoci nel labirinto di strade sannitiche già ostiche ai Romani, e saliamo verso quel promontorio di case, in
un profumo ubriacante di ginestre e faggete secolari. Penso a un viaggio nella storia e invece mi trovo immerso in un oggi che scotta, davanti a una giunta comunale che aspetta, sindaco in testa. Delegazione agguerrita, di centrosinistra, schierata per avere giustizia. Raccontano, come di cosa appena accaduta. C'è una rivolta, alla falsa notizia che i Borboni sono tornati. Scattano regolamenti di conti con due morti, i briganti scendono dai monti, il prete suona le campane per salutare la restaurazione. Un distaccamento di bersaglieri va a vedere, ma nella notte vengono aggrediti da una banda in un paese vicino e lasciano sul terreno 41 morti. Ci sono buoni motivi per pensare che il responsabile sia un proprietario terriero, impegnato in un subdolo doppio gioco: eccitare le masse per poi invocare la mannaia e rafforzare il suo status. Ma non importa: si manda una spedizione punitiva con l'incarico di "non mostrare misericordia", e alla fine si contano 400 morti. Morti innocenti perché gli assassini si sono dati alla macchia.

Quattrocento per quaranta. Dieci uccisi per ogni soldato, come alle Fosse Ardeatine. Oggi a Pontelandolfo c'è solo un monumentino con tredici nomi e una lapide in memoria di Concetta Biondi, violentata e uccisa dai soldati. Mancano centinaia di nomi, scritti solo nei registri parrocchiali. Il sindaco: "A marzo siamo stati finalmente riconosciuti come "luogo della memoria". Ma non ci basta: vogliamo essere "città martire" e che questo nome sia scritto sulla segnaletica. Vogliamo che l'esercito riconosca la sua ferocia. Lo dico al ministro: se i bersaglieri chiedono scusa, noi invitiamo ufficialmente le loro fanfare a suonare in paese come atto di riconciliazione. I nostri e i loro morti vanno ricordati insieme. Io ho giurato sulla fascia tricolore. Voglio dar senso alle celebrazioni, e non lasciare spazio ai rancori anti-unitari". Renato Rinaldi è un ex ufficiale di marina che si è tuffato in quelle pagine nere. Anche lui ha giurato sul Tricolore e anche a lui pesa il silenzio del Quirinale di fronte a vent'anni di lettere miranti al "ricupero della dignità del paese". Mi spiega che i bersaglieri erano agli ordini di un generale vicentino - vicentino, sì, come il mio buon Cariolato - di nome Pier Eleonoro Negri. E anche qui c'è silenzio. L'Italia non fa mai i conti col suo passato. Nessuna risposta da Vicenza alla richiesta di dedicare una via a Pontelandolfo o di togliere la lapide celebrativa del generale sterminatore.

Cielo limpido sulle verdissime foreste del Sannio. Perché si parla di Bronte e non di Pontelandolfo? Perché sono rimasti nella memoria gli errori garibaldini e non gli orrori savoiardi? E che cosa si sa della teoria dell'inferiorità razziale dei meridionali - infidi, pigri e riottosi - impostata da un giovane ufficiale medico piemontese di nome Cesare Lombroso, spedito al Sud nel '61 e seguire la cosiddetta guerra al brigantaggio? Che "fratelli d'Italia" potevano esistere se mezzo Paese era "razza maledetta" dal cranio "anomalo", condannata all'arretratezza e alla delinquenza? Leggo: "Dio, che cosa abbiamo fatto!", parole scritte nel '62 da Garibaldi in merito allo stato del Sud. Lettera alla vedova Cairoli, che per fare l'Italia - un'altra Italia - gli ha dato la vita di tre figli e del marito. Non si parla dei vinti. E senza i vinti le celebrazioni sono ipocrisia. Che fine ha fatto per esempio Josè Borjes, il generale di cui mi ha parlato Andrea Camilleri? Parlo dell'uomo che sempre nel '61, quasi da solo, tentò di sollevare le Sicilie contro i Savoia. Perché non si dice nulla della sua epopea e del mistero della sua morte? Perché non si riconosce il valore di questo Rolando che galoppa verso una fatale Roncisvalle dopo essere sbarcato con soli dodici uomini in Calabria, alla disperata, sulla costa crudele dei fallimenti, la stessa di Murat, dei Fratelli Bandiera, di Pisacane, dei curdi disperati, dei monaci in fuga dagli scismi bizantini?

Ed ecco, in una sera straziante color indaco, arrivare come da un fonografo lontano la voce di Sergio Tau, scrittore e regista che ha dedicato anni alla storia del generale catalano. "All'inizio degli anni Sessanta feci un film sul brigantaggio post-unitario. Volevo fare qualcosa di simile a un western, ma la pellicola non fu mai trasmessa. Allora era ancora impossibile parlarne. Ora vedo che la storia di Borjes può tornare fuori... Filmicamente è grandiosa, con la sua traversata invernale dell'Appennino". Ne terrà conto qualcuno? Borjes punta sullo Stato pontificio, ma a Tagliacozzo viene "venduto" da una guida traditrice ai bersaglieri, che lo fucilano insieme ai suoi. "Conservate quel corpo, potrete passarlo ai Borboni", dice un misterioso francese e venti giorni dopo la salma è consegnata alla guardia papalina, scende via Tivoli fino al Tevere e al funerale nella chiesa del Gesù a Roma. Poi c'è una messa per l'anima sua a Barcellona, ma del corpo più nessuna traccia. Resta un suo diario, stranamente in francese, lingua che lui non conosceva. L'ha davvero scritto lui o l'hanno scritto i "servizi" di allora, per occultare la repressione in atto? Il giallo di una vita vissuta anch'essa, bene o male, alla garibaldina.

venerdì, febbraio 08, 2008

Vota Luigi Bobba alle primarie di Repubblica Torino.

Care Amiche, cari Amici, da oggi sul sito dell’edizione torinese di La Repubblica sono state indette le “primarie on line” tra i possibili candidati alle elezioni politiche del 13 aprile 2008. Si tratta di una consultazione telematica che propone una lista di nomi che comprende tutti i parlamentari uscenti di DS e Margherita, esponenti della politica piemontese e della società civile. Vi invitiamo a visitare la pagina del sito di La Repubblica di Torino e a votare Luigi BOBBA “cliccando” sul quadratino che affianca la fotografia del nostro amico Gigi.

Per partecipare al sondaggio basta cliccare sul seguente link:

http://voti.torino.repubblica.it/voti/index.php?page=hp&idscontro=97


lunedì, gennaio 07, 2008

Bassolino risponde sulla questione rifiuti con un articolo sulla prima pagina di Repubblica.



In merito alla drammatica crisi di questi giorni, oggi La Repubblica ha pubblicato in prima pagina una lettera del Presidente Bassolino al direttore. Il governatore chiarisce le vicende di questi anni e le difficoltà incontrate sulla strada della modernizzazione del ciclo dei rifiuti.

di Antonio Bassolino

Caro direttore, è giusto e doveroso chiarire il quadro delle responsabilità della drammatica situazione campana. È vitale, infatti, per la nostra democrazia che vengano alla luce scelte errate, inadeguatezze, inefficienze e le collusioni tra politica, imprenditoria e criminalità organizzata.

Tale assoluta chiarezza è nell’interesse di tutti i cittadini e di tutti gli uomini impegnati nelle istituzioni. Voglio quindi dare il mio contributo a chiarire le vicende di questi anni. Nell’articolo di ieri, Eugenio Scalfari, scrive che in Campania “solo adesso, con dieci anni di ritardo, si è deciso di costruire un termovalorizzatore”. In realtà, il piano rifiuti per la nostra regione, definito alla fine degli anni ‘90 dall’allora presidente della Regione e commissario governativo Antonio Rastrelli con il ministro Ronchi, prevedeva un ciclo industriale di trattamento dei rifiuti con 7 impianti per il trattamento e la trasformazione in combustibile (Cdr) e due termovalorizzatori. La decisione di costruire i termovalorizzatori risale quindi a 9 anni fa. Quando diventai presidente e commissario a mia volta, nel 2000, la gara d’appalto per la gestione dei rifiuti era stata già definita e aggiudicata all’Impregilo, che, in base al contratto, aveva la facoltà di decidere la localizzazione degli impianti. Nei tre anni e mezzo in cui ho fatto il commissario (fino al febbraio 2004, ben quattro anni fa) ho firmato per l’avvio dei lavori e ho fatto tutto quanto potevo per dotare la mia regione di un moderno ciclo di trattamento dei rifiuti, dalla raccolta differenziata ai termovalorizzatori. In una corsa contro il tempo innescata dalla chiusura di tutte le discariche disposta dal prefetto e da una legge dello Stato.

Sono riuscito a far costruire, tra mille opposizioni e proteste, i 7 impianti per produrre il Cdr (Combustibile derivato dai rifiuti). Per aprire il cantiere di Acerra ho dovuto fare i conti con ostacoli di ogni tipo e violente contestazioni. C’erano comitati civici, ambientalisti fondamentalisti, vescovi che predicavano contro i rifiuti-demonio, disoccupati organizzati, esponenti del centrodestra e del centrosinistra che si mettevano a capo dei cortei a caccia di consenso. Mentre delinquenti comuni e manovalanza della camorra facevano la loro parte, provando in ogni modo a intimidire e tenere in scacco le istituzioni locali ogni volta che si faceva un passo avanti verso quella chiusura del ciclo che avrebbe fatto terra bruciata intorno al business delle ecomafie.

In questi anni, nella nostra regione, sull’opposizione ai termovalorizzatori e alle discariche, si sono costruite carriere politiche e fortune elettorali. Io sono stato sempre al mio posto. A favore della costruzione dei termovalorizzatori. Pronto al dialogo con i cittadini e alle giuste compensazioni per le comunità locali, ma indisponibile ai ricatti. Nei tre anni e mezzo in cui sono stato commissario non sono riuscito a costruire il termovalorizzatore.

Dopo di me non ci sono riusciti gli altri tre commissari del governo: il prefetto Catenacci, il capo della protezione civile Bertolaso, il prefetto Pansa. Tutti con poteri ben superiori ai miei. Da presidente della Regione - non più commissario - ho garantito a loro la massima collaborazione, sostenendone l’impegno con tutte le risorse e l’appoggio istituzionale possibile.

Come si vede non esito a riconoscere le mie responsabilità. Anche nel silenzio dei tanti che hanno ricoperto, prima e dopo di me, ruoli importanti in questa partita. La priorità oggi è dare soluzioni durature al problema. Se le mie dimissioni potessero servire a questo, non avrei la minima esitazione. Ma in questo momento sento il dovere di portare avanti con fermezza la battaglia di civiltà condivisa da tutti gli italiani onesti.