A partire dall'esperienza associativa vissuta nelle ACLI e da quella amministrativa a Napoli e Castellammare di Stabia utilizzo questo spazio per affrontare i temi del dialogo tra le generazioni, del lavoro, della formazione, del welfare, della partecipazione e della loro necessaria innovazione.
domenica, settembre 13, 2009
Premio Sele d’Oro Mezzogiorno: tutti i vincitori della XXV edizione
lunedì, agosto 10, 2009
Le gabbie salariali per il Sud hanno avuto la loro ragione d’essere in un’altra epoca. Lepore (Svimez): il Mezzogiorno deve responsabilizzarsi
martedì, luglio 21, 2009
I DEMOCRATICI, IL MEZZOGIORNO E LO SVILUPPO DEL PAESE
"Democratici per il Mezzogiorno" è una iniziativa politico-culturale avviata da Alessandro Bianchi, Amedeo Lepore e Giuseppe Soriero, che ha come finalità quella di riportare la questione del Mezzogiorno al centro dell'attenzione del Paese, elaborando proposte e promuovendo azioni nei confronti di Istituzioni, Cittadini, Imprese, Sindacati, Parlamento, Governo, Regioni, Enti Locali.
Come ha documentato ancora una volta il recentissimo Rapporto SVIMEZ 2009, Il Mezzogiorno d'Italia versa in una gravissima condizione per tutte le componenti economiche, sociali, territoriali e ambientali, e il suo ritardo rispetto al resto del Paese si va accentuando.
La conseguenza ultima e drammatica di questa condizione è la ripresa del fenomeno migratorio, con circa 300 mila persone per lo più giovani con elevati livelli di istruzione - che ogni anno abbandonano le regioni meridionali per cercare una prospettiva di lavoro nel Centro-Nord. Circa 120 mila di loro lo fanno in via definitiva, dando luogo ad una vera e propria emorragia delle migliori risorse umane.
Nasce da questa situazione il monito del Presidente della Repubblica: "Deve crescere nelle Istituzioni così come nella Società la coscienza che il divario tra Nord e Sud deve essere corretto".
Ma la strada che è stata intrapresa dall'inizio della nuova legislatura va esattamente in direzione contraria, come dimostra la sistematica sottrazione di risorse già destinate al Mezzogiorno verso altre finalità.
Va nella direzione di attuare un disegno non esplicito ma del tutto evidente - in base al quale è opportuno sostenere quella parte del Paese che si trova già in una condizione avanzata, lasciando che l'altra permanga in una sorta di sopravvivenza controllata, ossia una condizione determinata da un dosato trasferimento di risorse pubbliche sufficiente a non far collassare definitivamente la struttura produttiva, i livelli occupazionali e i servizi sociali.
E' questo disegno che va fortemente contrastato, riproponendo la questione meridionale come questione che riguarda direttamente lo sviluppo dell'intero Paese, essendo del tutto evidente che la pur solida economia del Centro-Nord non riuscirà a progredire se il Mezzogiorno non parteciperà a questo processo, mentre inevitabilmente si accentuerà il distacco dall'Europa.
In questo senso l'idea di una Lega Sud appare del tutto fuorviante, perchè si tratterebbe della riproduzione per contrappunto della medesima concezione localista dell'omologo partito del Nord. Di questo il Mezzogiorno e il Paese non hanno alcun bisogno.
Quello di cui c'è bisogno è di promuovere un nuovo progetto nazionale, unitario, di coesione e di progresso.
Un progetto alla cui elaborazione ed attuazione il Mezzogiorno partecipi da protagonista, grazie al sostegno di un rinnovata qualità delle istituzioni regionali e locali, di una spinta vigorosa dalle parti più vive della società civile, di un forte impegno meridionalista da parte dei grandi partiti nazionali democratici e progressisti, in primo luogo il Partito Democratico al quale chiediamo di caratterizzare in tal senso i contenuti del percorso congressuale in atto e la selezione più qualificata dei propri dirigenti a tutti i livelli.
Riteniamo che in questo modo il Partito Democratico possa dare un contributo decisivo a far emergere al più presto quel "forte impegno di efficienza e di innovazione da parte delle istituzioni meridionali", sollecitato dal Presidente Napolitano.
Quanto al lavoro che i Democratici per il Mezzogiorno intendono svolgere, il riferimento è costituito dal patrimonio di studi scientifici e di analisi dei fenomeni accumulato nel tempo da alcune prestigiose istituzioni meridionaliste, il cui operato risulterebbe certamente valorizzato da un'azione di interscambio e di coordinamento, che quelle stesse istituzioni hanno già in parte promosso inviando congiuntamente "Un messaggio al Paese dalla cultura del Sud".
Partendo da qui proponiamo di intraprendere la strada dell'elaborazione di proposte che, sulla scorta di una visione unitaria dei problemi nazionali ed europei, accompagnino la richiesta di maggiori risorse con la definizione dei contenuti di un nuovo progetto di coesione nazionale e stimolino azioni di natura politico-programmatica da parte dei soggetti che sovrintendono alle scelte.
Le questioni-chiave sulle quali appuntare l'attenzione sono di enorme portata: il controllo capillare del territorio e delle attività economiche da parte della criminalità organizzata; il degrado del territorio, dell'ambiente e complessivamente della vita civile; l'infimo livello di prestazione di servizi essenziali: sanitari, sociali, di trasporto, dell'istruzione, dell'energia, delle telecomunicazioni; l'abnorme tasso di disoccupazione giovanile; lo spreco di risorse pubbliche; la questione morale nel governo della cosa pubblica.
Per trovare risposte adeguate a questioni di tale portata è necessario uno straordinario impegno collettivo, che va preso qui ed ora e con il massimo di responsabilità.
A questo impegno i Democratici per il Mezzogiorno si propongono di dare un contributo stimolando l'apporto di personalità, associazioni, istituzioni culturali e scientifiche, singoli cittadini, sensibili nei confronti del complessivo problema del Mezzogiorno d'Italia e disponibili ad impegnarsi nella ricerca di soluzioni.
Il COMITATO PROMOTORE DEI "DEMOCRATICI PER IL MEZZOGIORNO"
Pina Amarelli, Alessandro Bianchi, Marina Comei, Dario De Luca, Marinella De Nigris, Adriano Giannola, Gianni Latorre, Amedeo Lepore, Giovanni Moschetta, Umberto Ranieri, Giuseppe Soriero, Lucio Villari.
lunedì, luglio 20, 2009
Rapporto SVIMEZ - Intervista ad Amedeo Lepore.
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domenica, luglio 19, 2009
L´economia incompiuta. Il Rapporto SVIMEZ si svolge intorno all’asse centrale dell’incidenza della crisi economica globale sul Mezzogiorno.
domenica, giugno 21, 2009
Il Sud che resiste.
La pubblicazione di un libro, a volte, può diventare l’occasione per l’apertura di un ampio confronto. È quanto sta avvenendo per il volume Il Sud che resiste. Storie di lotta per la cultura della legalità in Terra di Lavoro, con un’originale esperienza di partecipazione dal basso. Il suo autore, Pasquale Iorio, un sindacalista campano dotato di acutezza e tenacia, sta facendo di questa presentazione un vero e proprio tour in tutta Italia, tra grandi città e centri piccoli e medi. Il volume, partendo dall’efferato episodio della strage di sei ghanesi a Castevolturno, pone in evidenza come il fenomeno della delinquenza organizzata condizioni l’economia, colpisca i più deboli, crei emarginazione e inibisca la vita associativa; in sintesi, deprima ogni aspettativa per l’avvenire. Tuttavia, il libro non si ferma a queste constatazioni negative, ormai ricorrenti, ma si propone anche come un contributo di notevole interesse per la scoperta di buone pratiche di cittadinanza attiva e di legalità, in un’ottica di educazione permanente; come una narrazione serrata di storie di persone, associazioni e istituzioni di una provincia meridionale; come un paradigma dell’intero Sud e non solo delle vicende di una terra difficile, quale quella di Caserta. Questo volume si affianca alla sempre più vasta letteratura sulla illegalità diffusa e sul sistema criminale del Mezzogiorno, analizzata da Saviano, Capacchione, Di Fiore, Cantone, Sales, Barbagli, Becchi e vari altri. Da questo contesto, si distaccano le opere di Siebert, La Spina e Fantò, dedicate, in particolare, al rapporto tra criminalità e sviluppo economico e il peculiare punto di vista di Piero Barucci sulla “intermediazione impropria”, ovvero sulla grave diseconomia meridionale rappresentata dai rapporti perversi tra politica, istituzioni e delinquenza organizzata. Tuttavia, scorrendo le pagine de Il Sud che resiste, viene alla mente un saggio di Tullio e Quarella, apparso nel 1999 sulla “Rivista di Politica Economica”, dal titolo Convergenza economica tra le regioni italiane: il ruolo della criminalità e della spesa pubblica. In questo studio, si sosteneva che l’incremento degli investimenti pubblici per contrastare la disoccupazione poteva essere inefficace o, perfino, dannoso, se fosse avvenuto in un ambiente caratterizzato: da un impiego delle risorse finanziarie indotto da ragioni politico-elettorali, anziché economiche; da estesi fenomeni di decadimento delle istituzioni locali; da stretti legami tra criminalità e politica; da una scarsa tutela dei diritti di proprietà. Anche se la maggioranza dei meridionali era - ed è - onesta, la rete di relazioni a sostegno della criminalità era - ed è - tanto vasta, da penalizzare chi, come l’imprenditore agricolo portato ad esempio di un certo Mezzogiorno nel saggio, avesse una proprietà frazionata e mancasse di collegamenti con i partiti, la chiesa, la massoneria, ponendosi del tutto al di fuori dei sistemi di quel “capitale sociale negativo”, in grado di permettere una “ordinata sopravvivenza”. Iorio, al contrario, mette in rilievo un fattore di stimolo per lo sviluppo, quel “capitale sociale positivo”, che proviene dalle esperienze più diverse del territorio meridionale e che ne rappresenta un’indubbia caratteristica moderna e propulsiva. Questo è, probabilmente, l’aspetto più importante del libro, che parte dall’involuzione e dal degrado di una terra, un tempo fertile e di lavoro, come quella casertana, per arrivare a mostrare in piena evidenza alcuni dei volti positivi del Mezzogiorno. Infatti, il volume non è solo una testimonianza d’affetto e una memoria viva di questo territorio, ma rappresenta anche un concreto apporto alla costruzione di una speranza per il futuro. Le immagini che scorrono fanno parte del racconto di un Sud diverso dal senso comune prevalente: dagli imprenditori “dalla parte dello Stato”, impegnati a fondo nella lotta al racket, agli esponenti di una chiesa vicina ai più deboli, ai giornalisti anticamorra, alle associazioni giovanili e del volontariato, alle imprese e cooperative sociali, alle scuole aperte al territorio e alla multiculturalità, fino ai centri di insegnamento e di ricerca dell’università, viene un messaggio di notevole valore. Anche perché, non si tratta, secondo l’autore, di esperienze isolate, di tante monadi a sé stanti, ma di un insieme di figure, attività e ricchezze, “che vanno messe in rete e governate”. Questo obiettivo riguarda tutto il Mezzogiorno ed è il punto cruciale di un vero “nuovo meridionalismo”. Se da un lato, il Sud è ricolmo di talenti e creatività disperse, di iniziative di piccole e medie dimensioni, dall’altro, è difficile pensare che una stagione positiva possa riprendere solo con un intervento dall’alto, di tipo tradizionale. Allora, forse, il tema del protagonismo e della messa a sistema di questa ricchezza del Sud, fatta di energie positive, cervelli e operosità, troppo spesso abbandonata a sé stessa, può connettersi all’esigenza di una nuova fase di trasformazione e di superamento dei nodi strutturali del dualismo italiano. Il libro sottolinea come l’assenza della politica rappresenti un fattore di forte svantaggio per un’azione di questa portata. E qui il discorso, che rimanda ad una storia differente del Mezzogiorno, incarnata da politici interessati all’affermazione di un interesse generale della società e delle ragioni delle classi più disagiate, mossi da idee e valori di progresso civile, si fa più complesso. Rimanda alla possibilità di non sprecare o disperdere le energie positive, il capitale sociale dell’area meridionale, come il principale compito di una nuova classe dirigente, capace di sostituire quelle che hanno fallito. Chissà che una crescita dal basso, a partire da un impegno nelle pieghe della società, con la partecipazione di tanti alla costruzione di un’innovazione aperta del sistema culturale ed economico meridionale, non possa essere la più degna conclusione di un bel racconto, quasi, di una parabola civile su di noi.
Amedeo Lepore, 20 giugno 2009
martedì, giugno 02, 2009
Luigi De Rosa storico dell’economia ovvero ricomporre la frattura tra politica, economia e cultura al Sud.
Nei giorni scorsi, si è tenuto a Napoli un Convegno Internazionale dedicato a “Luigi De Rosa storico dell’economia”, promosso dal “Journal of European Economic History”. Nel corso dell’iniziativa, che è stata introdotta da Paolo Savona e Antonio Di Vittorio e a cui hanno preso parte alcuni tra i maggiori storici del mondo - legati all’insigne studioso napoletano da relazioni di lavoro e rapporti di conoscenza personale -, una delle tre sessioni di lavoro è stata riservata alla storia del Mezzogiorno e dello sviluppo economico italiano. Luigi De Rosa, infatti, ha profuso una parte non secondaria del suo impegno scientifico per approfondire l’analisi della condizione della terra natale, guardando, soprattutto, ai problemi dell’economia, in un’ottica di lunga durata. Egli è stato, oltre che uno dei maggiori esponenti della storiografia economica italiana, anche una delle personalità della feconda stagione del meridionalismo del dopoguerra. Il suo interesse per lo sviluppo industriale e per la diffusione delle attività economiche nel Sud è sempre stato molto consistente, a partire dall’erudita conferenza sulla “Storia della questione meridionale”, svolta per l’Organismo Rappresentativo Universitario Napoletano, nei primi anni della sua attività di ricerca. Un’attenzione intensa e incessante, che lo ha accompagnato fino all’ultima parte della sua vita, quando ha dato alle stampe il volume dal titolo “La provincia subordinata. Saggio sulla questione meridionale”. I relatori che si sono confrontati su questa tematica (Giuseppe Galasso, John Davis e Giuseppe Di Taranto) hanno messo in rilievo diversi aspetti dell’attività di De Rosa, di notevole significato anche in chiave attuale. È stato possibile ripercorrere i vari passaggi della sua opera sul Mezzogiorno, richiamandone la portata generale e sottolineandone l’alto valore scientifico. Così come, nel nome di un’antica amicizia, vi è stato chi, come Galasso - quasi stesse ancora argomentando, vis-à-vis, con Luigi De Rosa - ha voluto esprimere anche un orientamento diverso, a riguardo del divario meridionale, che, a suo avviso, non può essere considerato il risultato negativo dell’unificazione italiana, quasi si fosse trattato della conquista di una colonia, come una letteratura meridionale poco attendibile ha tentato vanamente di rappresentare. Tuttavia, il contributo di De Rosa all’interpretazione della “questione meridionale” è stato di fondamentale importanza per altre ragioni, che vanno ben al di là di una semplice cronologia del dualismo italiano. Il suo studio sugli arrendamenti, come hanno notato Galasso e Davis, ha rappresentato un notevole contributo alla comprensione di molti aspetti della distribuzione della ricchezza mobiliare nel Mezzogiorno continentale, nel corso del Seicento e del Settecento. Inoltre, la sua consapevolezza della persistenza della fragilità dell’economia meridionale posava le basi sulla considerazione di fondo che i problemi del Sud erano di natura essenzialmente economica e finanziaria. In un saggio sui diritti di proprietà, i cambiamenti istituzionali e la crescita economica meridionale, tra il Settecento e l’Ottocento, De Rosa poneva in evidenza, infatti, come il riformismo francese avesse mancato di dar vita a forme dinamiche di attività economica. Il mancato sviluppo del Mezzogiorno dipendeva dalla scarsa disponibilità di investimenti, a causa di un drenaggio di capitali dal Sud e dall’agricoltura: il primato dell’elemento economico - in quest’analisi della situazione meridionale, che metteva in secondo piano i problemi culturali e antropologici -, consentiva anche di spiegare meglio l’incompiutezza delle riforme. Un altro elemento, rimarcato da Davis, era la critica profonda di De Rosa, riguardo all’epoca più recente, per la scomparsa del sistema bancario meridionale, che ha contribuito fortemente ad accentuare il divario del Mezzogiorno. E di particolare attualità, appare la convinzione dello studioso napoletano, secondo cui, una delle cause dell’arretratezza meridionale, più che la mancanza di capitale umano, è lo spreco che se ne è fatto, attraverso una diffusa incapacità di un utilizzo pienamente produttivo. Qui si tocca uno dei punti cardine di un “nuovo meridionalismo”, che dovrebbe fare proprio della ricchezza degli ingegni, della creatività e dei talenti, mettendoli a sistema, una delle caratteristiche principali della crescita del Sud. Infine, è di grande interesse esaminare, come ha fatto Di Taranto, l’evoluzione dello sviluppo economico italiano, fino all’attuale situazione di grave crisi, i cui caratteri fondamentali erano stati ben individuati da De Rosa, oltre un decennio fa, quando ammoniva - a proposito della globalizzazione incipiente - sull’eccesso di cartolarizzazione dei mercati e sulla nascita di prodotti finanziari che sfuggivano ad ogni controllo di bilancio. Queste valutazioni sul Mezzogiorno, oltre a restituirci, in tutta la sua dimensione, la figura di un meridionalista appassionato e rigoroso, servono a comprendere che molti dei problemi attuali hanno radici profonde, di lungo - se non lunghissimo - periodo, ma anche che un lavoro serio e aggiornato di analisi, approfondimento ed elaborazione può fornire gli elementi essenziali per le scelte da compiere per il futuro. Il confronto sulla storia del Mezzogiorno e sul meridionalismo di De Rosa ha offerto indicazioni concrete, una traccia per considerare il percorso di un nuovo Sud, la cui classe dirigente può, forse, cominciare a ricostruirsi sulla base di una crescita culturale ed economica, prima ancora che politica. O meglio, può iniziare a fondarsi sulla base di una ricomposizione della frattura che si è operata, soprattutto al Sud, tra politica, economia e cultura.
Amedeo Lepore, 2 giugno 2009
lunedì, maggio 18, 2009
Open innovation e mezzogiorno: forse c'è un vantaggio!
Amedeo Lepore, 18 maggio 2009
domenica, maggio 03, 2009
Federalismo: i lati oscuri....
Il testo sul federalismo fiscale è stato approvato definitivamente dal Senato e diventa legge. Tuttavia, i suoi effetti sono stati differiti lungo un arco di sette anni, per realizzare una graduale applicazione dei principi contenuti nel provvedimento, fino alla sua piena entrata a regime, e per evitare di dover subito assumere decisioni impopolari, a cominciare da quelle legate al rispetto della clausola di salvaguardia, secondo cui, dalle norme sul federalismo fiscale non possono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Ovvero, i problemi di copertura finanziaria da parte degli Enti territoriali, così come la nuova organizzazione dell’imposizione e della spesa, possono comportare, alternativamente, un aumento dei tributi o una riduzione delle uscite o una soppressione di servizi a livello locale. Il “federalismo fiscale”, nell’interpretazione che è prevalsa, appare come un modo per operare una redistribuzione di risorse finanziarie a favore delle Regioni settentrionali, nonostante le petizioni di principio sul nuovo assetto dello Stato. Vedremo se e come il governo metterà mano anche alla Carta delle autonomie e alle riforme costituzionali, che dovrebbero accompagnare la legge-delega. Intanto, va considerato che, soprattutto grazie alla tenace azione della SVIMEZ e del suo presidente, Nino Novacco, vi sono stati cambiamenti sostanziali nel provvedimento approvato - rispetto al modello proposto dalla Regione Lombardia e al testo iniziale presentato in Parlamento -, che ne hanno attenuato alcuni elementi iniqui per il Mezzogiorno e distorsivi per il funzionamento dello Stato. Restano, tuttavia, gli interrogativi riguardanti l’effettiva capacità della legge di realizzare piena autonomia di entrata e spesa degli Enti locali, riuscendo a sostituire, gradualmente, il parametro della spesa storica con quello dei costi standard per l’erogazione dei servizi essenziali, che dovrebbero essere forniti uniformemente in tutto il Paese. E persistono anche gli interrogativi relativi al grado di responsabilità che, attraverso questo provvedimento, si vorrebbe indurre nell’amministrazione della cosa pubblica, specie dopo le rovinose prove offerte da diverse Regioni meridionali. Infatti, si è visto che la fine dell’intervento straordinario e la diminuzione dei trasferimenti nazionali alle aree del Sud non ha comportato la diffusione di comportamenti virtuosi. Anzi, è stato proprio negli ultimi anni che si è registrato un peggioramento della capacità amministrativa locale e una caduta della cosiddetta “etica pubblica”, negli Enti territoriali del Mezzogiorno. Questo fenomeno è stato determinato, più che dalla quantità di risorse erogate, da cattive politiche e da strategie di sviluppo esiziali: il tentativo maldestro di rifugiarsi nei “tradimenti” subiti dal Sud non può nascondere il fallimento delle scelte localistiche, della dispersione assistenziale e della distribuzione a pioggia dei finanziamenti europei. Per questo motivo, appare del tutto infondata l’idea secondo cui a minori risorse pubbliche potrebbe corrispondere un maggiore sviluppo del Mezzogiorno. Il limite più grave del provvedimento sul federalismo fiscale è proprio quello di lasciare inattuata o, addirittura, di contraddire la seconda parte dell’art. 119 della Costituzione, che impegna lo Stato a destinare risorse aggiuntive, attraverso interventi speciali, per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, con l’obiettivo di rimuovere gli squilibri economici e sociali delle aree più arretrate del Paese. Questa scelta, specie di fronte all’incedere della crisi, avrebbe dovuto rappresentare un punto cardinale dell’azione di governo e, in ogni caso, l’elemento qualificante di una legge che si propone di realizzare il dettato costituzionale. Invece, si diluisce ulteriormente la finalità del riequilibrio, fino a far scomparire ogni riferimento a interventi di carattere macroeconomico per il Mezzogiorno e a permettere interventi di tipo compensativo, indifferentemente al Sud come al Nord, con il risultato di favorire le aree più avanzate. Infine, non è dato di sapere come verrà applicata questa nuova normativa, visto il suo carattere di delega, ma, soprattutto, vista la mancanza di qualsiasi conteggio sull’impatto della riforma e considerati i tempi di due anni per l’emanazione dei decreti attuativi da parte del governo, che portano ad aumentare fino ad altri cinque anni i termini per il passaggio dalla spesa storica al costo standard. In questo periodo non breve, che potrebbe far riaprire perfino la discussione sulle scelte che si stanno effettuando ora, il Mezzogiorno non può rimanere alla finestra. Le Regioni del Sud, anche attraverso la costituzione di un organo permanente di monitoraggio sulla realizzazione del “federalismo fiscale”, dovrebbero tentare di avviare una nuova fase di coordinamento delle proprie strategie in una dimensione di macro-area. Le forze sociali meridionali, perlomeno quelle più avvertite, dovrebbero impegnarsi a fondo per creare nuovi obiettivi alla loro azione, interpretando la crisi come una possibilità di cambiamento e di assunzione di responsabilità. Il Mezzogiorno, da solo, non ce la potrà mai fare, ma di una nuova consapevolezza dei compiti di crescita culturale e competitiva, come pre-condizione per l’affermazione di nuove classi dirigenti, si avverte fortemente la necessità. Solo così, il talento e le competenze dei cittadini del Sud potranno evitare di disperdersi o di emigrare, mettendosi in sintonia con un progetto di risanamento e di riscatto di questa terra.
Amedeo Lepore, da Repubblica 3 maggio 2009.
domenica, gennaio 25, 2009
Federalismo fiscale e mezzogiorno. Il testo approvato al Senato non risolve tutti i problemi.
Il provvedimento sul “federalismo fiscale” approvato dal Senato contiene alcune novità, frutto del confronto tra maggioranza e opposizione in commissione e in aula. Tuttavia, vi sono ancora questioni fondamentali irrisolte e scelte estremamente rischiose per il futuro del Mezzogiorno, che dovranno essere affrontate nel corso della discussione nell’altro ramo del Parlamento. Infatti, la posizione espressa da Tremonti – secondo cui è “impossibile dare i numeri” e, quindi, indicare concretamente le modalità di copertura finanziaria del disegno di legge, vanificando la necessità di scongiurare aumenti di tasse a danno dei cittadini – manifesta una grave nebulosità su un aspetto costitutivo del provvedimento. Infatti, l’art. 119 della Costituzione prevede, tra l’altro, che la somma delle risorse derivanti dai tributi nazionali e locali, nonché dal fondo perequativo, debba consentire “ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”. Inoltre, la mancanza di qualsiasi collegamento ad un progetto di riforma delle istituzioni – che non può essere surrogato dalla Carta delle autonomie locali, la cui presentazione è stata solo annunciata da Calderoli – rende meno plausibile il percorso di una normativa, che rischia di scaricare sui livelli territoriali dello Stato la recessione del paese e i costi della riduzione inevitabile della spesa pubblica. Si dice che, in ogni caso, la crisi economica può rappresentare un’occasione per modificare nel profondo i meccanismi di impiego delle risorse pubbliche, che in questi anni hanno prodotto sperperi, malversazioni e inefficienze, soprattutto al Sud. Questo aspetto dell’assunzione piena di responsabilità da parte di chi ha il compito di governare l’amministrazione pubblica e di erogare servizi efficienti ai cittadini è di fondamentale importanza anche per avviare una nuova fase del meridionalismo, ma, alla luce dell’esperienza della fine dell’intervento straordinario, non sembra affatto scontato che il semplice taglio delle risorse finanziarie produca una riduzione del divario. Sorge il dubbio, allora, che per riformare profondamente il Mezzogiorno occorrano provvedimenti seri contro ogni forma di assistenzialismo e di spreco, accompagnati, però, da una politica in grado di rendere efficace l’azione delle istituzioni centrali e periferiche, visibile l’assunzione di responsabilità e credibile una prospettiva di superamento del dualismo. Questo è quanto prevede anche l’art. 119 della Costituzione, che recita testualmente: “Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni”. Non sembra che questa parte del dettato costituzionale abbia ricevuto ancora una risposta adeguata dal testo sul “federalismo fiscale”, che pure avrebbe il compito di attuarlo. Le novità del disegno di legge riguardano aspetti di un certo rilievo, come, ad esempio: il “patto di convergenza” su costi e fabbisogni standard, che, presentato con il DPEF, servirà a consentire il conseguimento degli obiettivi previsti attraverso azioni correttive; il sistema dei premi per le Regioni e gli enti territoriali che, a fronte di un elevato livello dei servizi, garantiscano una pressione fiscale inferiore alla media, nonché il sistema delle sanzioni, fino al commissariamento, per gli enti non virtuosi. Tra le altre innovazioni, poi, va considerata l’attuazione delle città metropolitane, che possono essere istituite nelle aree in cui sono compresi i comuni di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari e Napoli, con tre funzioni principali: la pianificazione territoriale generale e delle reti infrastrutturali; l’organizzazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici; la promozione e il coordinamento dello sviluppo economico e sociale. Tuttavia, non sono ancora risolti i problemi sostanziali che sorgono dalla scelta di questo tipo di “federalismo” e cioè: la necessità di una perequazione verticale effettiva e non la riproposizione di un meccanismo che conduce ad una carità pelosa da parte delle Regioni più ricche verso quelle più povere; il finanziamento delle funzioni “non essenziali” (come industria, commercio e agricoltura), che non può essere affidato alla sola perequazione della capacità fiscale; la possibilità di manovrare l’IRPEF da parte delle Regioni, attraverso la riserva di aliquota; la valutazione della rilevanza di alcuni servizi primari, come quelli di trasporto. Considerando che manca ancora del tutto qualsiasi criterio di definizione dei costi standard e dei parametri per la realizzazione di una modalità uniforme di erogazione dei servizi su tutto il territorio nazionale e, inoltre, che l’istituzione di una commissione bicamerale non cambia la natura della delega, che permetterà al governo, del tutto autonomamente, di approvare i contenuti dei decreti attuativi, è ancora molto arduo - e privo di scorciatoie - il lavoro da compiere alla Camera e, poi, di nuovo al Senato per ottenere un provvedimento che non penalizzi il Mezzogiorno e permetta un cambiamento profondo di questa parte del paese.
Amedeo Lepore
domenica, settembre 21, 2008
Federalismo fiscale visto da sud.
Uno dei principali temi del momento è rappresentato dal “federalismo fiscale”, che, tuttavia, rischia di diventare l’ambito per iniziative di carattere del tutto diverso, a tratti ideologico, o per l’affermazione di principi lontani da nuove e chiare regole, volte a garantire l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa alle istituzioni territoriali, attraverso “tributi ed entrate propri”, in sintonia con i principi costituzionali, oltre che con le norme di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, e attraverso “compartecipazioni al gettito di tributi erariali”, riferibili al territorio. Il Presidente della Repubblica, parlando a Venezia in questi giorni, ha sostenuto “l’esigenza di un rinnovato, consapevole ancoraggio alla Costituzione”, tanto più forte, quanto più si corra il pericolo di un indebolimento della coesione nazionale e del tessuto ideale e civile del Paese. La necessità oggettiva di una riforma, per dar vita al sistema progettato con l’articolo 119 della Costituzione, secondo il Capo dello Stato, può realizzarsi senza mettere in discussione “l’unità e indivisibilità della Repubblica”, considerata come “valore storico e principio regolatore fondamentale, di certo non negoziabile”, combattendo i particolarismi e le chiusure delle aree più avanzate, in nome del principio di solidarietà, e chiamando il Mezzogiorno ad una “prova di responsabilità” per l’impiego economico e la resa qualitativa dei finanziamenti pubblici, sia nazionali che europei. D’altro canto, Massimo D’Alema, presentando a Napoli un’iniziativa di collaborazione meridionalista tra “Italianieuropei” e “Mezzogiorno Europa”, ha posto in evidenza la necessità di non confondere il livello delle prestazioni connesse ad un diritto di cittadinanza, come quello derivante dal pagamento delle imposte, con un’esigenza diversa, di tipo territoriale, che non può sovrastare l’uguaglianza delle prerogative di tutti gli italiani. Un nuovo patto fiscale, si dovrebbe significare, mentre la pratica concreta sembra muoversi nella direzione di una progressiva, per quanto “morbida”, azione di disgregazione dello Stato. Tuttavia, per evitare ogni inutile discussione sul carattere retrò o meno di una posizione aperta ad un vero federalismo, responsabile, efficace ed equo, ma nettamente contraria ad una distorsione dei meccanismi fondativi del sistema repubblicano e democratico, occorre entrare - come si dice - nel merito. Il disegno di legge delega sul “federalismo fiscale”, approvato in via preliminare dal Governo, per ora non è altro che un grande contenitore di tematiche, quanto mai varie e generali, che dovranno essere sottoposte ad un attento esame delle istituzioni e delle forze sociali, in un arco di tempo non brevissimo. Tuttavia, vi sono alcuni punti che richiedono un’immediata chiarificazione o, meglio, una profonda revisione. Innanzitutto, preoccupa l’assenza di ogni riferimento quantitativo per il calcolo dei costi standard, che sostituiscono - a giusta ragione - la spesa storica, al fine della valutazione delle risorse necessarie per coprire, integralmente, l’erogazione dei servizi legati all’istruzione, alla sanità, all’assistenza e, in parte, quelli connessi ai trasporti locali. Questa indicazione concreta non può essere rinviata all’adozione dei successivi decreti legislativi da parte del Governo, ma deve essere oggetto di un esame connesso all’impianto stesso della riforma; inoltre, andrebbero individuati con nettezza e omogeneità i parametri di riferimento regionale e gli obiettivi di servizio a base del calcolo delle spese standard, in modo da non creare disparità tra gli utenti dei servizi erogati al Nord e quelli delle altre aree del Paese. Un secondo punto di analisi critica riguarda la spesa non riconducibile ai livelli essenziali delle prestazioni, che, sulla base dell’attuale proposta - in questo caso, con una forte incongruenza, non si fa più ricorso ai costi standard, ma si torna a quelli storici -, comporterebbe un trasferimento secco di risorse dal Sud al Nord pari a circa un 30% del totale. Altre notevoli contraddizioni riguardano: l’interpretazione del meccanismo perequativo, che non può assolutamente rappresentare un insieme di regole secondo cui le regioni ricche finanziano le povere; i livelli di “intesa” tra lo Stato e le istituzioni territoriali e, in particolare, il ruolo della “Commissione paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale”; l’effettuazione degli interventi speciali di cui al quinto comma dell’articolo 119, che potrebbero essere puramente aggiuntivi e -udite, udite! - centralizzati. Su diversi di questi temi sarà possibile tornare con maggiore approfondimento e compiutezza. Tuttavia, su una questione, che non riguarda esclusivamente il testo del disegno di legge, ma una scelta politica di carattere strategico, va compiuta una riflessione fondamentale. Come ha osservato il Presidente della Repubblica: “In Italia, deve porsi in particolare un forte accento sul rapporto tra un più coerente disegno evolutivo in senso autonomistico e federalistico dell’ordinamento della Repubblica, e il superamento di quel persistente, e perfino aggravato, divario tra Nord e Sud che denuncia la storica incompiutezza dell’unificazione nazionale”. Infatti, come si fa ad affrontare il tema dello sviluppo del Paese, del suo recupero di efficienza e competitività a livello internazionale, facendo finta che il “dualismo italiano” non esista più? La necessità di una politica di carattere nazionale, che si ponga concretamente l’obiettivo di affrontare uno dei principali nodi strutturali dell’economia e della società italiana, individuando le modalità per assicurare uno sviluppo produttivo e reali condizioni di mercato nel Mezzogiorno, non è la riproposizione di una vecchia forma di meridionalismo. Molto più seriamente, è l’unico terreno su cui un nuovo protagonismo, una piena assunzione di responsabilità da parte dei meridionali, una capacità “rivoluzionaria” di smantellare dal basso il sistema degli sprechi e dell’assistenza parassitaria, possono incontrarsi con un’azione condivisa di riforma delle istituzioni e di promozione di una moderna economia competitiva da parte dello Stato.
Amedeo Lepore
domenica, agosto 17, 2008
Federalismo fiscale:per il sud può anche essere una opportunità e non solo una condanna.
L’espressione “federalismo fiscale” ha origine dalla concezione della “configurazione territoriale ottimale del governo della finanza pubblica”, di derivazione americana, che fa riferimento alle entrate e alle spese pubbliche a prescindere dal livello decisionale di assegnazione delle relative funzioni. Tuttavia, negli ultimi anni, è emerso anche un altro orientamento, secondo il quale la titolarità delle entrate fiscali - l’unico aspetto di finanza pubblica considerato ai fini federalistici - appartiene alle comunità territoriali, mentre le funzioni di spesa ricadono all’interno delle scelte di devolution. La proposta di legge approvata dal Consiglio Regionale della Lombardia, rifacendosi a questa impostazione, determina, per le Regioni a statuto ordinario, un sostanziale squilibrio tra maggiori entrate e maggiori spese decentrabili. Uno studio CIFREL-Università Cattolica, condotto da alcuni economisti non certo sospetti di antifederalismo, come Ambrosanio, Bordignon e Turati, rileva che, dal punto di vista del metodo: “definire le risorse da attribuire, senza definire prima le spese che queste risorse devolute dovrebbero finanziare, necessariamente produce disequilibri”. Mentre, dal punto di vista del merito: “definire ex ante il livello della perequazione, senza di nuovo considerare i servizi che devono essere finanziati e i diversi gradi di tutela che la Costituzione riconosce a questi diversi servizi, conduce necessariamente a problemi di congruenza tra entrate e spese”. Questo vale, in particolare, per le Regioni meridionali, che, così, non sarebbero in condizioni di finanziare anche le funzioni costituzionalmente tutelate. Lo schema di disegno di legge sull’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, con delega al governo in materia di federalismo fiscale, presentato dal ministro Calderoli, non è la semplice riproposizione delle posizioni “nordiste”, ma – in una certa misura - un mix tra le ipotesi della Lombardia e l’analogo provvedimento proposto dal governo Prodi. La relazione di accompagnamento della bozza legislativa contiene affermazioni condivisibili in linea generale, che richiamano i temi della competitività del sistema; di un nuovo “patto fiscale”, basato su criteri di responsabilità, autonomia ed efficienza; di un sistema premiante a favore degli enti virtuosi e di un meccanismo sanzionatorio per quelli incapaci; di una perequazione, in grado di coniugare il principio costituzionale di solidarietà con quello di buona amministrazione. In particolare, viene sottolineato che il sistema perequativo consente “di assicurare il finanziamento integrale (calcolato in base al costo standard) dei livelli essenziali delle prestazioni che concernono istruzione, sanità, assistenza e le funzioni fondamentali degli enti locali”. Tuttavia, quando nello schema del governo si sostiene una “correlazione tra prelievo fiscale e beneficio connesso alle funzioni esercitate sul territorio”, assecondando l’idea di un “trasferimento implicito”, andrebbe richiamata la norma costituzionale che fa riferimento alle persone, più che ai territori. Per quanto riguarda gli interventi previsti dal quinto comma dell’articolo 119 della Costituzione, diretti a promuovere la coesione e a rimuovere gli squilibri economici e sociali, invece, vi è solo un generico riferimento al fatto che tali iniziative saranno finanziate con contributi speciali dal bilancio dello Stato, con i finanziamenti dell’Unione europea e con i cofinanziamenti nazionali, oppure facendo uso della leva fiscale, attraverso speciali esenzioni, deduzioni e agevolazioni. Eppure, una competizione reale può sussistere solo rispettando il principio delle pari opportunità dei partecipanti, altrimenti si favorisce la moltiplicazione delle disparità e la diminuzione del benessere collettivo, specie in un sistema dualistico come quello italiano. Questa constatazione non significa mettere in discussione la prospettiva federalista, che è il concreto orizzonte entro cui disegnare gli scenari di riforma istituzionale e di sviluppo economico del paese. Tuttavia, diversi aspetti del disegno di legge richiedono un vero confronto di merito. A cominciare dalla precisazione di un criterio che potrebbe apparire ovvio, come quello del passaggio – si dice, “graduale” – dalla spesa storica al costo standard, che può rappresentare un fatto positivo o del tutto inapplicabile, a seconda delle concrete modalità di definizione, rinviate ai provvedimenti di delega. La bozza Calderoli si presta, infatti, a soluzioni di ogni tipo per molti dei suoi temi caratterizzanti. Tuttavia, alcune parti già appaiono chiare e suscitano più di una perplessità e preoccupazione. In base al principio della territorialità del gettito delle imposte erariali, le Regioni assumono la titolarità di una cospicua fetta dei tributi finora gestiti dallo Stato, senza alcuna valutazione dei loro compiti precipui e dei costi da sostenere per metterli in opera. Il sistema perequativo prospettato, al di là delle enunciazioni astratte, si fonda su un meccanismo orizzontale, che lascia – di fatto – alle Regioni più ricche il finanziamento di quelle più povere. Queste ultime, peraltro, si trovano nella paradossale condizione di una maggiore pressione fiscale - a parità di ricchezza, su ciascun contribuente -, che però produce un gettito minore rispetto alle altre, con un livello qualitativo dei servizi del tutto inadeguato. Infine, va sottolineato che mentre il fondo perequativo si regge sulla compartecipazione all’IVA e sull’addizionale IRPEF a livello regionale, l’integrazione delle risorse finanziarie per gli altri Enti (Comuni e Province) è affidata, essenzialmente, all’azione delle Regioni, oltre che al refugium peccatorum delle autonomie locali, cioè, all’aumento delle tariffe dei servizi. Da questo combinato disposto, sembra emergere che l’interlocutore privilegiato del sistema federalista, ovvero la sua vittima, dovrebbe essere il consumatore o l’utente di servizi, già abbondantemente tartassato dalla congiuntura economica e dal sistema impositivo indiretto. Naturalmente, il confronto sul federalismo fiscale è appena all’inizio e gli orientamenti in materia, come le scelte legislative, potranno essere ulteriormente chiariti e perfezionati. Tuttavia, il Mezzogiorno deve partecipare pienamente a questo confronto, scongiurando il rischio di una timida e complice subalternità, come quello di un logoro rivendicazionismo. Il tema del federalismo fiscale consente anche di riaprire il confronto sui caratteri della “nuova questione meridionale” e sul ruolo della nazione verso il Sud: i meridionali avranno pieno titolo a far valere le loro osservazioni critiche e le loro proposte, quanto più si disporranno ad assumersi le proprie responsabilità e a valutare i propri limiti, l’inefficienza del proprio sistema politico-istituzionale, gli sprechi di risorse e l’inefficacia della propria economia, come un aspetto essenziale della trasformazione dell’area in cui vivono. Solo così, il federalismo potrà apparire come un’opportunità e non come una condanna.
Amedeo Lepore
domenica, luglio 20, 2008
Rapporto Svimez 2008. un declino costante.
Il rapporto SVIMEZ si presenta come un vero e proprio Baedeker dell’economia meridionale, in un vasto quadro comparativo, che si estende ben oltre i confini nazionali. L’ampiezza dei temi affrontati e la numerosità dei dati disponibili fanno, delle elaborazioni dell’Associazione fondata nel 1946, uno strumento unico per l’esame delle condizioni del Mezzogiorno e la definizione delle relative strategie di sviluppo. Queste analisi sono talmente affidabili che la Banca d’Italia le prende come riferimento essenziale per le proprie ricerche. Lo scenario complessivo che emerge dall’indagine di quest’anno è quello di un paese connotato da tempo “da una condizione di relativo declino”, aggravata dai fenomeni di contrazione della crescita economica nel 2007 e di inasprimento del contesto internazionale nel 2008. È in questo quadro, già di per sé complicato, che il Mezzogiorno manifesta tutti i suoi limiti strutturali, con tassi di crescita costantemente inferiori a quelli del resto del paese. Il PIL meridionale è cresciuto lo scorso anno dello 0,7%, un punto in meno che nel resto dell’Italia, con una diminuzione di 0,4 punti percentuali rispetto al 2006: ormai, è da sei anni ininterrotti che il Sud presenta questo divario di crescita. In termini di PIL pro capite, si è verificato un recupero del gap, legato, però, al minore aumento della popolazione del Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord: un fenomeno definito, a giusta ragione, una “via patologica” alla convergenza. Dal punto di vista della dinamica degli investimenti, va registrato un aumento molto lieve (dello 0,5%), con un calo di quasi due punti percentuali rispetto all’incremento dell’anno precedente; a questo, si è aggiunto un persistente indebolimento nell’andamento dei consumi interni nel Mezzogiorno. Tuttavia, i dati più significativi del rapporto SVIMEZ 2008, che mettono in evidenza processi nuovi e criticità di fondo del Mezzogiorno, riguardano la dinamica dei servizi, la questione delle grandi aree urbane, la convergenza e gli indici di competitività a livello europeo, il mancato adeguamento del Sud al mercato globale. Mentre il settore industriale ha mostrato negli ultimi anni una sostanziale tenuta, con un primo recupero di produttività, è il settore dei servizi, con il suo andamento negativo, a spiegare in ampia parte la disparità di crescita tra Mezzogiorno e Centro-Nord. Si tratta di una novità recente, dovuta, soprattutto, alla mancata ristrutturazione del settore terziario: l’inflazione e l’incapacità di salvaguardare gli standard di consumo delle famiglie meridionali hanno fatto il resto. D’altro canto, le città, che a livello globale rappresentano veri e propri “motori di sviluppo”, nel Mezzogiorno si trasformano in fattori di freno e condizioni di svantaggio, come è dimostrato dalla vicenda emblematica di Napoli, non solo per lo smaltimento dei rifiuti, ma per il complesso del funzionamento dei servizi, del sistema urbano e del tessuto sociale. Il Mezzogiorno, peraltro, è l’unica eccezione, nel panorama europeo, al processo di avvicinamento strutturale, che ha visto crescere notevolmente, dal 2000 in poi, sia le economie dei nuovi Stati membri, che quelle delle altre regioni dell’obiettivo “convergenza”. Inoltre, esaminando gli indicatori di competitività delle diverse regioni europee, si nota che il Sud presenta uno stato di consistente inferiorità, soprattutto per i tassi di occupazione, il capitale umano – con una forte penuria di laureati nelle discipline scientifiche – e le attività di ricerca e sviluppo. Infine, vengono in evidenza le gravi difficoltà del Mezzogiorno perfino nei confronti delle altre aree deboli dell’Unione europea, a causa di vari elementi concomitanti: una fase protratta di ristagno dell’economia nazionale; il deficit di qualità ed efficienza della pubblica amministrazione; la diffusione della criminalità organizzata; gli ostacoli frapposti alla realizzazione delle infrastrutture e alla liberalizzazione dei mercati; l’inconsistenza e la scarsa efficacia della politica regionale di sviluppo, di carattere nazionale o comunitaria. Quest’ultima presenta il risultato paradossale di una limitata capacità della spesa pubblica complessiva in conto capitale, discesa addirittura al 35,3% nel 2007, ma, al tempo stesso, di una grande frammentazione degli interventi, che finora ha impedito la convergenza delle regioni meridionali verso la coesione economica. A questa descrizione, già abbastanza fosca, vanno aggiunti altri problemi di natura sociale, come la incipiente povertà – che riguarda oltre la metà delle famiglie con una sola retribuzione –, legata ad una distribuzione del reddito sempre più sperequata nel Sud. O come la desertificazione demografica di un Mezzogiorno caratterizzato da nuove migrazioni, da forme inedite e laceranti di pendolarismo, da un’immobilità interna della popolazione del tutto inattuale. I rimedi indicati dalla SVIMEZ non vanno affatto interpretati come la riproposizione di vecchie impostazioni statalistiche, del tutto irrealizzabili; piuttosto, come il rigoroso tentativo di percorrere le strade più realistiche per un impegno immediato, ma di lunga lena, volto alla ridefinizione della politica per la macroarea meridionale. I cardini di questa proposta riguardano: la possibilità di una riforma interna della programmazione – superando logiche di localismo e dispersione territoriale – e di un diverso utilizzo dei finanziamenti nazionali ed europei, guardando sia alla quantità delle risorse ordinarie, che alla qualità degli interventi da attuare; la definizione di un federalismo fiscale, nel quale non prevalga un’idea inaccettabile di chiusura dei conti tra la parte più ricca del paese e quella più arretrata, ma un’esigenza di efficiente, equilibrata e solidale ripartizione delle responsabilità, sulla base dei principi della sostenibilità e dell’autonomia finanziaria; la capacità di puntare sulle iniziative necessarie per valorizzare le esportazioni di beni e servizi, per favorire l’internazionalizzazione delle imprese meridionali, nonché, per incrementare notevolmente l’attrazione di capitali esteri nel Sud; la realizzazione di un vero sistema dei trasporti, non più periferico, e di un nuovo mercato del credito meridionale, a partire dal ruolo dei Confidi. Si tratta di solo alcune delle proposte avanzate dalla SVIMEZ, in un contributo di grande portata per la comprensione dell’economia meridionale attuale. Ma si tratta anche delle principali intuizioni per un nuovo meridionalismo, rivolto sempre più a costruire il futuro dell’Italia in una chiave, non di rivendicazionismo, ma di impegno e responsabilità.
martedì, aprile 24, 2007
Referendum elettorale: partita la raccolta delle firme. Un articolo di Amedeo Lepore del Comitato promotore napoletano.
Amedeo Lepore