sabato, aprile 04, 2009

ACLI: Lavoro e formazione per lo sviluppo del sud. Il testo della relazione introduttiva

Grande successo per il convegno "Lavoro e formazione per lo sviluppo del Mezzogiorno" promosso dalle ACLI e dall'Enaip Nazionali con le ACLI Campane e Beneventane. Pasquale Orlando, responsabile del Centro Mezzogiorno delle ACLI, che ha presieduto il convegno, ha assicurato a tutti i partecipanti la stampa e la distribuzione dei materiali e delle relazioni prodotte. Nell'attesa della pubblicazione iniziamo a diffondere i testi già in possesso dell'organizzazione. Cominciamo oggi con l'intervento di Maurizio Drezzadore, responsabile nazionale delle ACLI per il lavoro e la formazione professionale che è stato alla base dell'importante iniziativa conclusa da Michel Rizzi, vice presidente nazionale delle ACLI. Nei prossimi giorni, lo stesso testo di Michele Rizzi e le relazioni della prof. Natalia Faraoni, dipartimento di Sociologia e Scienza della politica dell’Università di Firenze, di Natale Forlani, presidente di Italia Lavoro, e di Giovanni Principe, direttore generale dell’Isfol.


Il Sud rappresenta la più grande riserva di sviluppo dell’economia italiana. L’Italia intera può crescere mettendo a frutto le potenzialità del Sud e prima di tutto il suo protendersi nel Mediterraneo, posizione strategica per la cooperazione economica con i paesi del Nord-Africa e con il Medio-Oriente e per competere sulle grandi rotte marittime intercontinentali verso il Nord America e verso l’Asia. Se l’Italia vuole strappare quote all’enorme traffico marittimo futuro e alle connesse attività di servizio ai porti di Rotterdam e ad Anversa, le risposte si chiamano Gioia Tauro, Taranto, Napoli e Cagliari.

Al Sud ci sono innanzitutto i giovani - l’indice di vecchiaia al Centro-Nord è 162 al Sud è 113 – che sono la più importante risorsa per crescere.

Inoltre l’Italia può crescere valorizzando il patrimonio ambientale e naturale del Sud per sfruttare il turismo e tutti i servizi connessi. Il numero di presenze turistiche nel Mezzogiorno è di 3,5 per abitante, contro il 10,3 della Grecia e l’8,7 della Spagna. Le presenze turistiche al Sud possono triplicare.

L’Italia può crescere trasformando il Mezzogiorno in una grande piattaforma produttiva e tecnologica delle energie rinnovabili.

Oggi non si tratta di spostare imprese dal Nord al Sud, come negli anni sessanta, perché oggi il Sud offre opportunità di fare imprese, seppure diverse da quelle del Nord . Così il turismo, l’industria di trasformazione agroalimentare, il made in Italy, ma anche poli ad elevatissime tecnologie come l’Alenia di Taranto, la SGS THomson di Catania, e numerose software hause.

L’Italia ha sempre tratto dalle sue diversità interne e dall’originalità del suo modello capitalistico, un forte stimolo per la sua crescita. Un modello che ha saputo sostituire, a partire dagli anni settanta, una classica industrializzazione basata sulle grandi imprese pubbliche e private del triangolo industriale, con una industrializzazione fatta in misura rilevante da distretti e da sistemi di piccola e media impresa. Evidenziando non un ritardo, ma un modello caratterizzato, ma da una positiva e interessante diversità.

Ora, che gli anni duemila stanno dimostrando il profondo mutare delle condizioni dell’economia internazionale, si presentano inedite difficoltà al nostro modello, che inducono a cercare strade nuove. In questa ricerca e riorganizzazione le diversità interne potrebbero rappresentare nuove opportunità.

Questa crisi può e deve diventare l’occasione per il Sud di darsi una scossa salutare. E’ necessario:

  1. azzerare il diffuso spreco di risorse collegato alla distribuzione a pioggia di contributi al sistema delle imprese e qualificare la rete dei servizi;
  2. investire le risorse in pochi ma grandi progetti di infrastrutturazione del Sud;
  3. applicare una consistente detassazione alle imprese che decidono di investire capitali in zone particolarmente svantaggiate del Meridione.

La pratica della distribuzione a pioggia di enormi risorse dei fondi strutturali ha dato pessima prova di sé. Intorno all’intervento pubblico sono cresciuti e si sono consolidati potentati locali, corruzione, la peggiore burocrazia e l’attitudine clientelare di tanti meridionali che di fronte alla prospettiva immediata dei sussidi pubblici hanno abbandonato ogni iniziativa creativa e professionalmente valida.

Ma il declino del Mezzogiorno non è solamente un problema economico è un problema culturale, sociale e politico. “Il Mezzogiorno salvi il Mezzogiorno”: il monito che don Luigi Sturzo lanciò nel lontano 1923 diventi oggi punto di riferimento per ogni politica nel Sud.

Bisogna ragionevolmente prendere atto che in questi ultimi vent’anni si è notevolmente attenuato nella coscienza nazionale il sentimento di dover concorrere al riequilibrio del paese, intervenendo al rilancio del Sud. Ciò è accaduto parallelamente al crescere del convincimento che ulteriori piani nazionali, nuove casse del Mezzogiorno in altro non potevano trasformarsi se non nell’ennesimo fallimento

L’enorme disponibilità di fondi comunitari che sono destinati al Sud per il settennato 2007/2013, ben 90 miliardi di euro, sono analoghe risorse di quanto negli ultimi dieci anni si è speso senza che il loro impiego abbia prodotto effetti soddisfacenti in termini di riduzione del divario rispetto al resto del paese. Anzi il Sud ha smesso di crescere ed ha aumentato il proprio gap rispetto al Centro-Nord. Il Sud d’Italia cresce meno, proporzionalmente alla risorse impiegate, delle altre regioni ad obiettivo Convergenza dell’Unione a 27.

C’è una inquietante asimmetria tra i costi medi dei servizi pubblici e la loro qualità, tra i costi degli apparati amministrativi e la loro efficienza, tra l’impiego di risorse pubbliche ed l’avanzamento nel processo di modernizzazione. Dietro a tutto questo appare il profilo di una classe dirigente diffusa che in oltre un decennio non ha prodotto risultati di sviluppo.

Se non si da il via ad una profonda autocorrezione, nelle scelte, negli orientamenti e nelle politiche di governo locale, diventerà impossibile promuovere una nuova questione meridionale che abbia l’ambizione di parlare all’intero paese. Basta con il pigro continuismo e la stanca gestione della cosa pubblica fine a se stessa. E’ giunto il momento di un cambio di rotta.

Se le Istituzioni nazionali evidenziano una clamorosa caduta di interesse e di volontà politica nell’affrontare il problema del Mezzogiorno, tanto che si fa una gran fatica a riproporre solo l’attenzione su questo tema, è prima di tutto conseguenza dell’impoverimento culturale e morale della politica che è sotto gli occhi di tutti.

Come avvedutamente diceva alcuni mesi fa, proprio in questa Regione, il Presidente della Repubblica Giorgio Napilitano, i problemi del Mezzogiorno sono innanzitutto delle sue classi dirigenti che non arrecano solo un danno al Sud, perché senza un Mezzogiorno dinamico e moderno l’intero paese è costretto a portarsi sulle spalle un peso in più. Tale e tanto è stato l’impoverimento della politica in molte zone del Mezzogiorno che la stessa democrazia, cioè la libera espressione del voto, rischia di essere il meccanismo che perpetua questa cancrena, con il rischio che il grande impiego delle preferenze - che caratterizza molto di più il Sud rispetto al resto del paese - finisca col premiare i peggiori. Con la conseguente inamovibilità di ceti politici, supportata spesso dalla sudditanza sociale. In molte zone del Sud c’è un deserto e nessuno sa come coltivare un disegno con un alto profilo di cambiamento.

A vent’anni dal Documento della Chiesa italiana sul Mezzogiorno – e dalla principale proclamazione in esso contenuta che il paese non crescerà se non insieme - i vescovi del Sud hanno recentemente lanciato un forte monito per un profondo cambiamento culturale e delle coscienze.

Ma in questi vent’anni la realtà del Mezzogiorno è totalmente cambiata. Quei caratteri culturali che lo caratterizzavano nel passato, sono andati dissolvendosi sull’onda di una modernità senza sviluppo che ha dato luogo a molti guasti, primo tra tutti l’insopportabile crescita della malavita sempre più rafforzatasi come struttura organizzata. Non ci si può rassegnare al fatto che mafia, camorra e andrangheta vengano elevate a simbolo delle tre aree più importanti del Sud.

Più che altrove la società civile nel Mezzogiorno è chiamata ad essere segno di cambiamento, a trasformare non solo le strutture ma anche la mentalità e gli stili di vita, per così aiutare il Sud ad uscire da una prospettiva di totale irrilevanza. E’ questa la prospettiva indicata dalle ACLI per guardare lontano, chiamando a raccolta tutte le forze vive della società e prima di tutto i giovani. Abbiamo tutti bisogno del loro coraggio e del loro entusiasmo. Abbiamo bisogno di quei giovani che manifestano e levano alta la loro voce contro l’insorgere della malavita.

In un Mezzogiorno in cui nessuno ha saputo corrispondere alle attese di sviluppo dei territori, ha saputo porre fine al susseguirsi di scandali politici e all’affarismo economico, alla piaga della disoccupazione e al degrado delle periferie delle grandi città, dobbiamo far rinascere un nuovo protagonismo della società civile che si faccia interprete e promotrice di un profondo cambiamento di rotta.

Anche le ACLI, anche la società civile hanno le proprie responsabilità: essersi troppo adagiate al generale dilagare della spesa pubblica assistenziale, non aver adeguatamente contrastato un modello che ha immiserito la democrazia in puro scambio di interessi comprato con denaro pubblico. Fatto sta che anche noi abbiamo passivamente accettato l’affermarsi di modelli che umiliando ogni protagonismo sociale hanno ridotto la grande ricchezza associativa e il diffuso protagonismo di popolo in ossequiente e rassegnata sottomissione al dilagante clientelismo politico.

Sono i giovani, protagonisti nelle piazze nella lotta all’illegalità, che ci chiedono di rendere più viva la nostra azione, nel saper trasformare la nostra diffusa presenza sociale in passione civile. Dando testimonianza dei valori cristiani con forza capace di spezzare il circolo vizioso della illegalità, della corruzione, del clientelismo che calpesta i più deboli, chi non ha l’amico giusto al posto giusto.

Oggi la società civile deve impegnarsi a scuotere il Mezzogiorno per farlo diventare protagonista del suo riscatto. Svegliare dal sonno quanti ancora dormono e non vogliono affrontare la realtà, quanti aspettano che una soluzione venga dall’alto. Oggi la società civile lanci la sua iniziativa per superare ogni forma di scoraggiamento, inerzia e stanca gestione dell’esistente.

Ripartire dai giovani, principale risorsa del Mezzogiorno, per dare loro vere opportunità di accrescimento professionale e di inserimento lavorativo, significa produrre robuste riforme degli apparati amministrativi e una radicale trasformazione nel settore della formazione professionale, per costruire utili politiche attive per il lavoro caratterizzate da qualità ed efficienza dei sistemi formativi

Nel Sud, laddove più si avverte l’esigenza che la formazione professionale accompagni e favorisca un processo di sviluppo dei territori, i sistemi formativi sono in condizione disastrosa e le percentuali di dispersione e di abbandoni scolastici sono elevatissime. Nelle periferie delle grandi città oltre il 40 per cento dei ragazzi in uscita dalla scuola media resta fuori da ogni percorso lavorativo o formativo. Spesso li si trova per le strade, nelle loro facce è già segnato il destino di marginalità sociale e di contiguità con la piccola criminalità. In moltissimi casi per loro manca completamente l’offerta formativa capace di consentire a chi non è portato per la scuola superiore di poter incontrare una proposta alternativa. Ci sono Regioni intere in cui la formazione professionale è stata ideologicamente osteggiata o marginalizzata; ed oggi la prima riforma da promuovere è quella di darle l’avvio.

In altre Regioni del Mezzogiorno, ad esempio la Sicilia, si è realizzata una gestione dei fondi comunitari di tipo assistenziale e clientelare, col risultato che ad una enorme spesa, di gran lunga superiore a quella che si fa in Veneto o in Lombardia non corrisponde alcun significativo risultato qualitativo. Si continua a mantenere in vita una macchina che produce competenze e saperi professionali assolutamente disallineati rispetto agli indirizzi di sviluppo del territorio. Si è fatto della formazione una macchina di assunzioni clientelari per rinforzare l’apparato di consenso dell’assessore di turno.

Sui tanti fallimenti delle politiche formative regionali nel Mezzogiorno, pesa anche l’incerto procedere delle politiche nazionali. I governi di centro-destra che con la riforma del ministro Moratti avevano aperto un importantissimo e nuovo scenario per la formazione professionale, facendola diventare un canale del sistema nazionale di istruzione, oggi stanno contraddicendo se stessi. Le risorse per la formazione sono falcidiate senza alcun disegno coerente, si negano alle regioni virtuose anche gli indispensabili stanziamenti per poter mantenere in vita l’offerta formativa esistente, si rischia che sottraendo dai fondi comunitari FSE le risorse per pagare le indennità di cassa integrazione ai padri si finisca col sottrarre le opportunità formative per i figli.

Nello stesso Ministero del Lavoro stenta a prendere forma un progetto per la formazione professionale, che rimane la grande assente nella discussione sulle diverse misure per fronteggiare la crisi, mentre il dibattito politico la elogia facendola diventare la leva per costruire in modo dinamico competenze per i lavoratori e più competitività per le imprese all’uscita dal tunnel della crisi.

Eppure sembrava che la formazione dovesse essere al centro dell’agenda politica e dovesse rappresentare uno degli architravi dell’innovazione, anche con misure che potessero rappresentare una forte discontinuità con il passato. Una nuova formazione assunta come il modo più coerente per ridare centralità alla persona nel processo di apprendimento e nel lavoro, superando l’autoreferenzialità di programmi che si perpetuano inalterati nel tempo sempre uguali a se stessi, unicamente ispirati dal garantire il reddito ai formatori.

Non tutti hanno colto positivamente tali intenti, ma chi come noi ogni giorno fa i conti con i ritardi della programmazione formativa in particolare nelle Regioni del Sud, vi ha voluto scorgere un segnale di vera svolta, di superamento delle logiche di spesa inutile, per farne una leva dello sviluppo.

Dopo un esordio che sembrava premonitore di interventi radicali ed anche dolorosi, si è passati al totale silenzio delle politiche nazionali. Anche il piano straordinario di formazione annunciato nel libro verde o le azioni di accompagnamento agli interventi degli ammortizzatori sociali in deroga promossi con un cospicuo accantonamento di ben 9 miliardi di euro, sembrano caduti in letargo.

E’ vero che nel nostro paese i tagli e le incertezze sulle risorse della formazione non faranno notizia, ma sono parte significativa del grave pericolo che stiamo correndo di far perdere anche ai giovani la fiducia nel futuro non sapendo offrire loro oggi le competenze necessarie per poterlo costruire.

Di fronte a sfide così pressanti le ACLI non mancheranno di assumere fino in fondo la propria responsabilità.

Sono le stesse caratteristiche di questa crisi epocale che evocano l’inderogabile esigenza di produrre una svolta nello sviluppo del pianeta.

Il lavoro e la formazione sono chiamati ad assumere un più significativo ruolo nella costruzione dello sviluppo, soprattutto qui nel Mezzogiorno. Dopo il fallimento della finanza spregiudicata la guida allo sviluppo va riportata su lavoro e produzione.

Costruire una nuova centralità del lavoro è il compito che le ACLI si sono date, nella consapevolezza che per riportare al centro il lavoro bisogna nel contempo dargli un nuovo significato e costruirgli intorno nuove tutele.

Per questo le ACLI promuoveranno una campagna nazionale per un nuovo statuto dei lavori che metta a tema il superamento delle condizioni di disuguaglianza che ancora caratterizzano il mercato del lavoro italiano e l’offerta di opportunità formative come principale strumento di autotutela.

1. Promuoveremo una capillare iniziativa protesa all’effettivo riconoscimento di tutti i diritti formativi, sia quelli in capo ai giovani, anche in età di obbligo, sia quelli in capo agli adulti occupati o disoccupati.

2. Promuoveremo maggiori uguaglianze dal punto di vista contrattuale superando tutte quelle condizioni che oggi rischiano di far degenerare la flessibilità in gabbia di precariato.

3. Promuoveremo un sistema di ammortizzatori sociali che sia in grado di fornire adeguate tutele a tutte le tipologie di lavoratori, recuperando in particolare condizioni di parità per i lavoratori atipici.

4. Promuoveremo condizioni per cui i trattamenti previdenziali siano portati alla medesima aliquota contributiva e si generino per il futuro parità di trattamenti pensionistici.

5. Promuoveremo una riforma delle indennità di disoccupazione per garantire a tutti la copertura di un adeguato sostegno al reddito indipendentemente dalla categoria contrattuale, ancorandola allo sviluppo di idonei interventi nelle politiche attive e di ricollocamento dei lavoratori e a dei comportamenti di responsabilità e di impegno attivo nella propria ricollocazione da parte dello stesso lavoratore.

Lo sviluppo del Mezzogiorno non può che nascere da un nuovo progetto, ma anche dalla messa in campo di nuove responsabilità. Il lavoro potrà essere il centro di questo progetto, perché superando una concezione assistenziale e sussidiata si possa liberare le nuove energie per lo sviluppo che potranno essere promosse da un nuovo protagonismo attivo responsabile e partecipato di tutto il mondo del lavoro.


1 commento:

Anonimo ha detto...

Si, probabilmente lo e