domenica, marzo 09, 2008

Prezzi e inflazione: possiamo capirne qualcosa di più?

Prezzi e inflazione: possiamo capirne qualcosa di più ?
Leonardo Becchetti
da www.benecomune.net


Finalmente il dibattito sull’inflazione sembra fare qualche passo in avanti. Nel corso degli ultimi anni non si usciva dal dialogo tra sordi che contrapponeva ISTAT e associazioni dei consumatori. I primi, presentando i nuovi dati sull’indice dei prezzi al consumo, con un approccio simile al “sopire” Manzoniano, tranquillizzavano il paese sul fatto che la dinamica dei prezzi era sotto controllo.


I secondi urlavano il loro dissenso presentando evidenze campionarie sulla cosiddetta “inflazione percepita”, ben più elevata di quella ufficiale.

I recenti dati ISTAT sulla dinamica dei prezzi dei beni a maggior frequenza di consumo (alimentari innanzitutto) cominciano a colmare questo fossato sottolineando come quest’ultima sia a metà tra inflazione dichiarata e inflazione percepita.

Per capire il perché bisogna convincersi che il dato sull’inflazione non è una verità scientifica (queste due parole sono già un ossimoro) inconfutabile perché infinite sono le metodologie con le quali è possibile misurare questa grandezza.

In un lavoro pubblicato una decina di anni fa con alcuni colleghi (Bagella, M., Becchetti, L., Corrado, G., Gomellini, M. , 1998, Quali spazi per l’introduzione di titoli ad indicizzazione reale?, Economia Italiana, (2), 417-488) abbiamo provato a fare una cosa semplicissima. Confrontare il dato ISTAT dell’indice dei prezzi al consumo nazionale, ed uguale per tutti, con l’inflazione calcolata per ciascuna classe di reddito nella quale utilizzavamo il “paniere effettivo” di ciascuna classe sociale e costruivamo dunque un indice con beni e pesi diversi per ciascun gruppo. Per intenderci, poiché la legge di Engel osserva che, più basso il reddito, maggiore la quota di spesa in beni alimentari (gli studi sui paesi in via di sviluppo utilizzano la quota di reddito consumata in beni alimentari come uno degli indicatori più attendibili di povertà). Alla fine dell’esercizio osservavamo che il tasso d’inflazione dei ceti più poveri era superiore a quello Istat, proprio per il soprappeso dei beni alimentari la cui dinamica dei prezzi era più sostenuta.

Ciò cui stiamo assistendo in questi ultimi mesi corrisponde in maniera amplificata ai risultati di questo studio. Mentre i prezzi di settori esposti alla concorrenza internazionale e soggetti a continue innovazioni scandite dal progresso tecnologico tendono a calare, quelli dei prodotti alimentari aumentano per due motivi principali: potere di mercato dei rivenditori (concorrenza monopolistica) e dei distributori e (è questa l’aggravante recente) aumento della domanda di alcuni prodotti di base che cominciano ad essere utilizzati come input per la produzione di energia (biomasse).

Più in generale, è possibile costruire qualsivoglia indice dei prezzi a seconda di ciò che si inserisce o si toglie dal paniere. Basta aggiungere un prodotto high-tech e togliere un prodotto di un settore soggetto a scarsa concorrenza che le cose cambiano. Il paniere in teoria dovrebbe contenere i beni più importanti per la popolazione. Poiché è impossibile stabilire una classifica unica per tutte le classi sociali ed indiscutibile di tali beni fondamentali i margini di discrezionalità sono notevoli.

Teniamo inoltre conto del fatto i nostri schemi mentali sono ancora tarati sull’economia fordista nella quale esisteva un solo bene con un unico prezzo, e non una pluralità di prodotti caratterizzati da piccole differenze ed innovazioni che li distinguono uno dall’altro, con gamme di prezzi differenziate a seconda che si venda in un hard discount il prodotto standard di qualità medio-bassa o in un negozio tradizionale i prodotto di qualità più elevata.

Considerando la differenziazione di prodotto e l’innovazione tecnologica, il grado di discrezionalità nel costruire l’indice dei prezzi aumenta e la nostra capacità di capire diminuisce. In molti casi può capitare che l’indice sbagli anche per eccesso (ovvero rappresenti la realtà più cara di quella che è) non tenendo conto che prodotti high-tech non solo calano di prezzo ma aumentano anche di qualità. Se prendiamo l’esempio dei personal computer il prezzo aggiustato per la qualità (potenza del processore, risoluzione del video, durata delle batterie, ecc.) è molto più basso di quello di acquisto dei prodotti di ultima generazione.

Se vogliamo complicare ulteriormente il quadro dobbiamo considerare che le nostre convenzioni scricchiolano non solo quando guardiamo alle variazioni ma anche ai livelli. Con un esercizio che possiamo fare tutti basta confrontare il costo di un prodotto il più possibile omogeneo (il prezzo del caffè al bar ad esempio) per osservare che i livelli dei prezzi variano, e di molto, tra grandi città ed altri centri, tra una regione e l’altra e persino tra un bar e l’altro dello stesso quartiere (nel mio ad esempio si va da 90 a 70 centesimi). Il costo della vita nei grandi centri può essere superiore del 30-40 percento rispetto a quello delle altre aree del paese. Tutto questo conta molto perché quando guardiamo ai redditi dovremmo correggerli per il loro potere di acquisto (come si fa tra diversi paesi del mondo ma non ancora tra regioni dello stesso paese).

Rischiando il mal di testa, ma sicuramente facendo un passo avanti nella comprensione della realtà, potremmo capire se le dinamiche inflazionistiche riducono o modificano le differenze di potere d’acquisto tra città e regioni riuscendo a confrontare in maniera corretta il valore di un reddito di 1500 euro a Roma e a Chieti.
Anche se questi doverosi approfondimenti potrebbero finire per confonderci, i principali accorgimenti per combattere l’inflazione non sono poi così complessi.

Gli economisti sanno che esiste la tentazione da parte delle autorità di dichiarare un’inflazione più bassa del previsto per moderare la spirale delle rivendicazioni salariali delle varie categorie e realizzare “sorprese dal lato reale dell’economia” (ovvero offrire alle imprese un quadro favorevole in cui il gap tra ricavi e costi le induce ad aumentare la produzione e ad investire). Pur senza aver approfondito tutti i dettagli le organizzazioni dei consumatori intuiscono il problema danno voce ai moltissimi “fedeli disillusi” che non credono più nel dogma.

Se le istituzioni non vogliono pertanto correre il rischio di non essere più ascoltate devono rinforzare la loro credibilità evitando di diffondere un unico dato (quello dell’indice dei prezzi al consumo) come verità rivelata e cominciando ad offrire indicatori diversi e raffronti attendibili dei livelli dei prezzi tra diverse aree del paese. Allo stesso risultato si può forse convergere nella misura in cui studiosi ed opinione pubblica sono in grado di riflettere maggiormente sull’enorme mole dei dati a disposizione, costruendo qualcosa di più dell’indice d’inflazione percepita.

Infine i cittadini dovrebbero imparare a difendersi più che a lamentarsi quando la difesa è possibile . In molti casi la nostra capacità di scegliere e votare col portafoglio non è poi così difficile da esercitare (posso cambiare bar del quartiere in cui bere il caffè). Ad esempio una delle lamentazioni meno credibili è quella sui prezzi dei ristoranti per i residenti in una grande città. Non siamo turisti giapponesi e siamo perfettamente in grado di premiare, in un contesto comunque articolato e competitivo, quei ristoranti che sono all’avanguardia nel rapporto qualità/prezzo.

La questione dell’inflazione, lungi dall’essere una verità scientifica inaccessibile e indiscutibile, è il risultato di un complesso gioco tra autorità, agenti economici ed opinione pubblica nel quale maggiore trasparenza ed ampiezza d’informazione, da un lato, scrupolo conoscitivo e partecipazione civile dall’altro, possono contribuire a creare un quadro più favorevole.

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