Leonardo Becchetti - da Benecomune.net
Due sono le fotografie essenziali dell’economia italiana che ci portiamo dietro dall’ultimo degli anni zero (il 2009). Quella positiva ci dice che da fanalino di coda del debito pubblico e del mondo bancario siamo stati, e di gran lunga, superati in peggio dai campioni anglosassoni e oggi possiamo vantare uno dei sistemi migliori in virtù della nostra prudenza e capacità di risparmio. Quella negativa ci ricorda che l’impatto della crisi sull’economia reale ha esasperato i limiti tradizionali del nostro mercato del lavoro e della distribuzione del reddito tra nuove e vecchie generazioni creando una fascia di precariato e di marginalità nei trentenni che non ha eguali in Europa.
Entrambe queste novità dipendono dalla gravissima crisi finanziaria mondiale che abbiamo affrontato. Per capire, relativamente al primo punto, come essa abbia trasformato il panorama bancario e finanziario basti ricordare che prima del cataclisma tutto veniva visto attraverso la lente del debito pubblico (trascurando il problema dei debiti delle famiglie e delle imprese) e della capacità del sistema bancario di creare valore per gli azionisti. Sulla base di questi criteri di giudizio eravamo gli ultimi della classe con un debito oltre il 100 percento del PIL (solo Grecia e Giappone peggio di noi) e con l’anomalia della presenza rilevante delle banche popolari, cooperative ed etiche che con la regola “una persona un voto” violavano il dogma capitalista che le persone contano in proporzione ai soldi che hanno e non per se stesse. Se prima della crisi la principale preoccupazione a livello europeo sembrava quella di sanare quest’anomalia, la crisi ha messo a nudo gli elementi perversi e ben più pericolosi del cortocircuito di avidità del modello anglosassone capovolgendo classifiche e giudizi di valore. Nel Regno Unito e negli Stati Uniti la cattura dei regolatori, gli incentivi mal costruiti, l’eccesso di prestiti senza attenzione alle capacità di restituzione dei clienti e l’allontanamento del prestatario dal rischio di fallimento del debitore hanno portato al tracollo centinaia di banche e fatto schizzare i debiti pubblici (gonfiati dagli interventi di salvataggio dei governi) ben oltre il livello italiano, con tendenza ad ulteriore peggioramento per via di deficit molto superiori ai nostri (come avevamo già previsto in un articolo di quasi un anno fa su Bene Comune). Al contrario il nostro sistema ha retto, nessuna banca è fallita grazie alla qualità dei regolatori, agli anticorpi solidali e all’approccio non unicamente orientato alla creazione di valore per gli azionisti delle banche.
Se questa è la buona notizia dobbiamo purtroppo constatare che la crisi, con le sue conseguenze reali sull’export , sul sistema delle piccole e medie imprese e sul mercato del lavoro, ha acuito alcuni difetti tipici della nostra economia. Da sempre il nostro sistema ha premiato gli insiders (chi già lavora) rispetto agli outsider (chi è disoccupato o è un giovane in cerca di prima occupazione), ha fatto affidamento per quanto riguarda il welfare sui trasferimenti interni alla famiglia e ha spostato una quota eccessiva delle risorse disponibili sulle pensioni, aumentando il divario tra nuove e vecchie generazioni. Con la crisi finanziaria e le difficoltà dell’economia reale, le condizioni degli outsiders o dei quasi-outsiders (i lavoratori precari) si sono aggravate. Chi ha avuto la peggio sono coloro che, trovandosi in condizioni di difficoltà, non hanno potuto godere né degli ammortizzatori tipici delle grandi imprese, né della solidarietà interna alla famiglia con la sua capacità di assicurare i singoli membri dagli shock subiti. Non è un caso che una quota elevata di nuovi poveri è rappresentata da coniugi separati che hanno perso il lavoro o hanno un’occupazione temporanea o precaria che non consente di far fronte a tutte le necessità economiche per una vita dignitosa.
Quali sono le vie d’uscita e come utilizzare i nostri punti di forza per combattere le debolezze? La prima ricetta è quella di incentivare e promuovere la capacità delle banche di erogare credito alle piccole e medie imprese e la costruzione di regole discriminanti che favoriscano la creazione di una serie di istituzioni finanziarie solidali (la cui offerta potenziale è già presente ed articolata sul territorio) in grado di soddisfare le esigenze di chi è a rischio povertà evitando la caduta nei circuiti dell’usura o delle “finanziarie facili”. Nel campo del lavoro è necessario creare un sistema di ammortizzatori equo che non privilegi soltanto chi perde il lavoro nelle grandi imprese. Ci vogliono poi misure in grado di correggere lo squilibrio tra nuove e vecchie generazioni creando opportunità affinché i giovani possano costruire gradualmente percorsi di stabilità professionale fondamentali anche per le scelte di vita affettive.
Il discorso complessivo sul welfare e sul rapporto con la famiglia e la società civile è più complesso. La riflessione più recente dimostra che il modo migliore di utilizzare risorse finanziarie è quello di favorire la costruzione di relazioni e di reti di solidarietà all’interno delle quali circolino doni, gratuità, fiducia e responsabilità. Usare risorse senza tener conto di questo, o addirittura peggiorando il quadro delle relazioni e reti di solidarietà, è sia inefficiente dal punto di vista economico che dannoso per la soddisfazione di vita personale e il bene comune. La famiglia, le comunità, la vitalità delle associazioni della società civile non sono ferri vecchi ma esattamente quello che ci vuole per rendere vivo il principio di sussidiarietà e costruire una società solidale nella quale la vivacità e la partecipazione di tutti riducono il fabbisogno di risorse monetarie pubbliche necessarie per erogare un certo servizio sociale.
E’ dall’approfondimento di questa intuizione fondamentale che dipenderà il successo nel perseguimento nel bene comune in società nelle quali le risorse pubbliche saranno sempre più scarse e preziose, perché necessariamente orientate a servire il debito e a curare gli errori finanziari del passato.
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