martedì, ottobre 27, 2009

Solidarietà indifesa. L'informazione nel sociale di Paola Springhetti

n un libro di Paola Springhetti il rapporto tra volontariato e media. Un'analisi della ''asocialità'' della comunicazione mainstream incapace di capire e raccontare la società.

Negli anni Ottanta e Novanta il giornalista che si occupavano di sociale era soprannominato "quello delle sfighe”. Gli altri intervistavano politici, imprenditori e registi, lui rom, tossicodipenenti e immigrati clandestini. Gli altri partecipavano a centralissime conferenze stampa con tanto buffet finale, lui contrattava con volenterosi ma inefficienti gruppi di volontariato e partecipava a periferici incontri con i giornalisti alla fine dei quali non di rado gli veniva anche chiesta un'offerta per le attività dell"associazione. Parte da questi stralci di vita vissuta il volume di Paola Springhetti “Solidarietà indifesa: l’informazione nel sociale”, (Editrice Missionaria Italiana, pp. 192, euro 10,00), un viaggio in quel giornalismo di serie B, lontano dai centri del potere e dai flussi della comunicazione mainstream, ma vicino alle battaglie della società civile e ai suoi diretti destinatari: i poveri, gli esclusi, quelli che negli anni Ottanta e Novanta chiamavano appunto gli “sfigati”.
Così pagina dopo pagina, il volume offre una lettura dell’informazione sociale su più livelli: sul ruolo anche (anzi in primo luogo) politico del volontariato e della sua possibile alleanza virtuosa con il mondo della comunicazione, sui media mainstream che Paola Springhetti definisce “asociali” perché non solo non riescono a “costruire società, ma non riescono neanche a rispecchiare il mondo circostante, sul giornalismo alternativo che, quando non si lascia schiacciare da uno sguardo eccessivamente autoreferenziale, riesce a diventare un giornalismo realmente indipendente e dotato di proprie caratteristiche: hard news contro soft news, sobrietà stilistica contro spettacolarizzazione, apprfondimento contro superficialità, indipendenza contro manipolazione, utilizzo di fonti non istituzionali contro fonti istituzionali, orientamento al sociale contro orientamento al mercato, pubblico di nicchia contro pubblico generalista.
Ma il volume di Paola Springhetti ha il pregio di far luce anche sulla figura del “redattore sociale”, che l’autrice racconta attraverso l’espediente narrativo del dischetto di memorie e riflessioni ritrovato in una polverosa stanza abbandonata da tempo e salvato solo casualmente dal macero. Il dischetto, da cui nasce il libro, appartiene appunto al redattore di una rivista del terzo settore, di cui non è possibile ricostruire l’identità. Si tratta di un giornalista che vive in prima persona una parte delle ansie e delle preoccupazioni di quelli di cui quotidianamente si occupa, un free lance o un precario che dir si voglia. Uno che, non guadagnando abbastanza, si da dà fare come può: alternando periodi di magra a periodi di iper attività in cui svolge due o più lavori contemporaneamente, accumulando collaborazioni di vario tipo. Ma è anche uno che non si dà mai per vinto, continuando sempre a interrogarsi e a lanciare i suoi messaggi in bottiglia in un mare che le bottiglie le sommerge, “mentre immense navi da crociera lo solcano, cariche di messaggi di significato opposto a quelli che io tento di fare arrivare lontano”.
Si tratta, insomma, di un giornalista costretto a ripensarsi ogni giorno e a mettersi continuamente in discussione. Nel tentativo di uscire dagli schemi troppo semplici che spesso caratterizzano l’informazione sociale per seguire l’evoluzione del mondo circostante, senza però però esserne dominati. Il redattore sociale, scrive Stefano Trasatti nell’introduzione del volume, “non è né un marziano né un idealista e nemmeno uno che si occupa necessariamente e solo di temi sociali: che si tratti di finanza o di sport, di cronaca o di politica, è attento a considerare gli aspetti che chiamano in causa i soggetti deboli”. Accettando di coinvolgersi con ciò che racconta, specie quando incontra i “mondi sconosciuti”, popolati da persone a volte sgradevoli soprattutto perché “possono metterci a disagio per il solo fatto di porre in discussione i nostri schemi”. Un giornalista, precisa Trasatti richiamando il grande reporter Ryszard Kapuscinski scomparso lo scorso anno, che fa questo mestiere 24 ore su 24 perché “non può permettersi di accendere il cervello solo nelle ore del lavoro d’ufficio, sempre che abbia un ufficio, e non sia uno dei sempre più numerosi precari di questa professione”.

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