Se il Papa deve spiegare il perdono ai lefebvriani
ENZO BIANCHI
Il grande padre della chiesa, Basilio di Cesarea, in un testo dal titolo significativo - Il giudizio di Dio - stigmatizza in modo molto severo le divisioni, le lotte e l’inimicizia presenti nella comunità ecclesiale del suo tempo: «Vedo nella chiesa di Dio grandissimo disaccordo... e i capi, che con giudizi contrapposti lacerano le chiese, turbano il gregge». Questo scritto è ben conosciuto da Benedetto XVI che lo ha già citato in altre occasioni, ma ora sembra quasi il testo ispiratore della sua lettera indirizzata ai suoi confratelli nell’episcopato, una lettera resa pubblica affinché possa aiutare a fare chiarezza dentro e fuori la chiesa sulla «disavventura imprevedibile» occorsa con il sovrapporsi del caso Williamson alla vicenda della remissione della scomunica ai quattro vescovi del movimento di Lefebvre: aspetti per un verso intimamente legati, che è tuttavia importante mantenere distinti se si vuole guardare con lucidità al cammino della chiesa nel mondo contemporaneo, un cammino da percorrere sulle tracce del Vangelo e seguendo la «bussola» del Vaticano II.
Nella lettera - un testo in cui il papa narra la sua misericordia, la sua pazienza di pastore, la sua ricerca operosa della comunione ecclesiale - Benedetto XVI confessa anche il turbamento provocato in lui da questa crisi, dall’incomprensione del progetto, dalla cattiva comunicazione tra vertice e chiese locali, e manifesta con sofferenza la conoscenza di accuse astiose nei suoi confronti. Il papa vuole consegnare alla chiesa una «parola chiarificatrice» che aiuti a comprendere le sue intenzioni e «contribuire alla pace nella chiesa». Non si può non cogliere la straordinarietà di una simile lettera, lo stile e il linguaggio inediti nel magistero papale, l’umiltà della chiarificazione e la sofferenza di chi vede il proprio ministero di comunione compreso come causa di divisione. Sì, va confessato con parresia: la chiesa è oggi lacerata da divisioni e contrapposizioni, sovente si registra anche una confusione che non permette alla comunità ecclesiale di pervenire pur con fatica a quell’unanimità possibile, mai piena ma sempre da ricercarsi, in modo da essere reale comunione animata dall’amore ed essere segno e profezia per il mondo.
Ora, nella lettera del papa ai vescovi c’è una parola che ritorna con insistenza e che anima non solo il contenuto della missiva ma anche le intenzioni che hanno mosso il comportamento di Benedetto XVI durante tutta questa vicenda. Questa parola è «riconciliazione», una parola che il papa riconduce alla «priorità suprema, l’amore». È stata una precisa volontà di «riconciliazione con un gruppo ecclesiale implicato in un processo di separazione» che ha ispirato «il sommesso gesto di una mano tesa»; così il malaugurato irrompere della polemica negazionista ha finito per apparire come una «smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei». Riconciliazione, unità, pace all’interno della chiesa si rincorrono nelle accorate parole di Benedetto XVI che non esita a fare chiarezza anche sulle questioni al cuore della disputa: il concilio nel suo rapporto con la tradizione è definito come evento che «porta in sé l'intera storia dottrinale della chiesa»; l’impegno per l’unità dei cristiani, l’ecumenismo «è incluso nella priorità suprema» del suo pontificato; il dialogo interreligioso è definito non come semplice confronto sul piano culturale bensì come «la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce».
Ma «riconciliazione» è anche la parola che meglio esprime il desiderio prioritario del papa, della chiesa, dei cristiani: «rendere Dio presente in questo mondo e aprire agli uomini l’accesso a Dio», perché proprio così avviene la riconciliazione tra Dio e l’umanità, si avanza su vie di umanizzazione e ci si apre alla «nuova creazione». Riconciliare gli uomini con Dio è il compito del ministero apostolico ed è responsabilità che ricade anche sui cristiani: nessuna ostilità, nessuna inimicizia verso l’umanità di oggi, ma il desiderio di impegnarsi giorno dopo giorno per migliorare la convivenza civile, combattere l’idolatria sempre rinascente, fonte di alienazione per tutti gli uomini, frenare il decadimento nella barbarie, favorire la pace e la giustizia, promuovere la dignità e i diritti di ogni persona, lavorare per una più equa distribuzione delle risorse naturali e dei frutti del lavoro umano...
Ma l’accorato appello del papa non andrebbe colto solo come inerente alla vicenda della remissione della scomunica, ma come esortazione alla chiesa intera. In quest’ultimo decennio, infatti, soprattutto nella chiesa che è in Italia, abbiamo assistito a una trasposizione anche a livello intraecclesiale di metodi di lotta già condannabili in ambito mondano: calunnie fantasiose, interpretazioni false, denigrazioni, ricostruzioni accomodate di eventi fatte circolare con l’aiuto di qualche giornalista compiacente per attaccare o screditare ora un cardinale, ora un vescovo, ora uomini di chiesa. Si lanciano dubbi o accuse di non appartenenza alla comunione ecclesiale, si etichettano persone come antipapa, pericolose per la fede della comunità cristiana, le si censura, si arriva persino a condurre sotterranee guerre per bande e lobbies. E quanti usano questi mezzi squallidi sanno che chi è etichettato come avversario non userà le stesse armi per difendersi perché non acconsentirà mai a una lotta fraterna manifestamente contraria al vangelo e allo stile del cristiano. Eppure non ci si dovrebbe dimenticare che, come ricorda il papa, «la discordia dei cristiani, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la loro credibilità nel parlare di Dio».
Sì, la pace ecclesiale è stata ed è contraddetta, e per tutti coloro cui sta a cuore l’unità dei discepoli di Gesù questa situazione è fonte di sofferenza: come fa Benedetto XVI in questa lettera, ci si deve rifiutare di reagire con risentimenti e aggressività, ben sapendo che non solo si soffre per la chiesa, ma che a volte sono anche gli uomini di chiesa che fanno soffrire. Ma un vero discepolo di Gesù sa che impara ad amare la chiesa del Signore nell’acconsentire a soffrire per essa, fosse anche ricevendo sofferenze dagli uomini che la rappresentano.
Nella lettera - un testo in cui il papa narra la sua misericordia, la sua pazienza di pastore, la sua ricerca operosa della comunione ecclesiale - Benedetto XVI confessa anche il turbamento provocato in lui da questa crisi, dall’incomprensione del progetto, dalla cattiva comunicazione tra vertice e chiese locali, e manifesta con sofferenza la conoscenza di accuse astiose nei suoi confronti. Il papa vuole consegnare alla chiesa una «parola chiarificatrice» che aiuti a comprendere le sue intenzioni e «contribuire alla pace nella chiesa». Non si può non cogliere la straordinarietà di una simile lettera, lo stile e il linguaggio inediti nel magistero papale, l’umiltà della chiarificazione e la sofferenza di chi vede il proprio ministero di comunione compreso come causa di divisione. Sì, va confessato con parresia: la chiesa è oggi lacerata da divisioni e contrapposizioni, sovente si registra anche una confusione che non permette alla comunità ecclesiale di pervenire pur con fatica a quell’unanimità possibile, mai piena ma sempre da ricercarsi, in modo da essere reale comunione animata dall’amore ed essere segno e profezia per il mondo.
Ora, nella lettera del papa ai vescovi c’è una parola che ritorna con insistenza e che anima non solo il contenuto della missiva ma anche le intenzioni che hanno mosso il comportamento di Benedetto XVI durante tutta questa vicenda. Questa parola è «riconciliazione», una parola che il papa riconduce alla «priorità suprema, l’amore». È stata una precisa volontà di «riconciliazione con un gruppo ecclesiale implicato in un processo di separazione» che ha ispirato «il sommesso gesto di una mano tesa»; così il malaugurato irrompere della polemica negazionista ha finito per apparire come una «smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei». Riconciliazione, unità, pace all’interno della chiesa si rincorrono nelle accorate parole di Benedetto XVI che non esita a fare chiarezza anche sulle questioni al cuore della disputa: il concilio nel suo rapporto con la tradizione è definito come evento che «porta in sé l'intera storia dottrinale della chiesa»; l’impegno per l’unità dei cristiani, l’ecumenismo «è incluso nella priorità suprema» del suo pontificato; il dialogo interreligioso è definito non come semplice confronto sul piano culturale bensì come «la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce».
Ma «riconciliazione» è anche la parola che meglio esprime il desiderio prioritario del papa, della chiesa, dei cristiani: «rendere Dio presente in questo mondo e aprire agli uomini l’accesso a Dio», perché proprio così avviene la riconciliazione tra Dio e l’umanità, si avanza su vie di umanizzazione e ci si apre alla «nuova creazione». Riconciliare gli uomini con Dio è il compito del ministero apostolico ed è responsabilità che ricade anche sui cristiani: nessuna ostilità, nessuna inimicizia verso l’umanità di oggi, ma il desiderio di impegnarsi giorno dopo giorno per migliorare la convivenza civile, combattere l’idolatria sempre rinascente, fonte di alienazione per tutti gli uomini, frenare il decadimento nella barbarie, favorire la pace e la giustizia, promuovere la dignità e i diritti di ogni persona, lavorare per una più equa distribuzione delle risorse naturali e dei frutti del lavoro umano...
Ma l’accorato appello del papa non andrebbe colto solo come inerente alla vicenda della remissione della scomunica, ma come esortazione alla chiesa intera. In quest’ultimo decennio, infatti, soprattutto nella chiesa che è in Italia, abbiamo assistito a una trasposizione anche a livello intraecclesiale di metodi di lotta già condannabili in ambito mondano: calunnie fantasiose, interpretazioni false, denigrazioni, ricostruzioni accomodate di eventi fatte circolare con l’aiuto di qualche giornalista compiacente per attaccare o screditare ora un cardinale, ora un vescovo, ora uomini di chiesa. Si lanciano dubbi o accuse di non appartenenza alla comunione ecclesiale, si etichettano persone come antipapa, pericolose per la fede della comunità cristiana, le si censura, si arriva persino a condurre sotterranee guerre per bande e lobbies. E quanti usano questi mezzi squallidi sanno che chi è etichettato come avversario non userà le stesse armi per difendersi perché non acconsentirà mai a una lotta fraterna manifestamente contraria al vangelo e allo stile del cristiano. Eppure non ci si dovrebbe dimenticare che, come ricorda il papa, «la discordia dei cristiani, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la loro credibilità nel parlare di Dio».
Sì, la pace ecclesiale è stata ed è contraddetta, e per tutti coloro cui sta a cuore l’unità dei discepoli di Gesù questa situazione è fonte di sofferenza: come fa Benedetto XVI in questa lettera, ci si deve rifiutare di reagire con risentimenti e aggressività, ben sapendo che non solo si soffre per la chiesa, ma che a volte sono anche gli uomini di chiesa che fanno soffrire. Ma un vero discepolo di Gesù sa che impara ad amare la chiesa del Signore nell’acconsentire a soffrire per essa, fosse anche ricevendo sofferenze dagli uomini che la rappresentano.
1 commento:
Perche non:)
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