PIETRO TRECCAGNOLI Non c’è parola più globalizzata di pizza. Da Montevideo al Bronx, da Pechino a Belgrado, dal Manzanarre al Reno la trovate dovunque e tutti credono di sapere di cosa stanno parlando e che cosa stanno mangiando. Illusi. La parola c’è, quello che manca, troppo spesso, è proprio la pizza, perlomeno come la intende il napoletano medio. Ora che l’Europa ha stabilito le regole (la disciplinare) per poterla definire una «specialità tradizionale garantita» (Stg) i pizzaioli tirano un sospiro di sollievo, ma non abbandonano lo scetticismo di chi la sa lunga. La pizza è una, nessuna e centomila. Non solo quella che abusa del nome, ma proprio la pizza di casa nostra, verace o tradizionale che sia. I bizantinismi che dividono le associazioni si sprecano, più degli stessi condimenti che talvolta sfiorano il bizzarro. Ma su poche cose sono tutti d’accordo: per fare la pizza ci vuole il pizzaiolo, oltre agli ingredienti e alla manipolazione giusta. Tra le varie regole imposte la più disattesa è quella della mozzarella di bufala. «La disciplinare europea» spiega Massimo Di Porzio, presidente dei ristoratori e direttore dell’Associazione verace pizza napoletana, quella del Pulcinella che inforna, «non impone la mozzarella. È possibile condire con il fior di latte». L’olio extravergine è usato da pochissimi. La tradizione gli preferisce quello di semi. «Ma usare l’extravergine aumenta la qualità» precisa Di Porzio. In poche parole, il pizzaiolo si considera a ragione un artigiano, se non un artista, esperto in variazioni anche solo per preparare una semplice Marinara o Margherita. La serialità non si addice alla pizza. Le regole vanno interpretate. Servono soprattutto fuori da Napoli. «A noi interessa che si faccia la pizza napoletana e non che siano solo i napoletani a farla. Tra l’altro le norme dell’associazione valgono per tutto il mondo, quello dell’Sgt solo per l’Europa» specifica Di Porzio. All’associazione, che conta 220 aderenti (in tutt’Italia, ma anche in Giappone, Australia, Stati Uniti, Grecia, Germania e Spagna, a breve aderirà persino una pizzeria di Kiev, in Ucraina), arrivano decine di telefonate al giorno di chi vorrebbe imparare a fare la pizza, soprattutto aspiranti professionisti. È diventato indispensabile pensare a una scuola. Basta con le discriminazioni. Serve un conservatorio per la Margherita, come c’è per l’altro simbolo dell’oleografia napoletana, il mandolino. Strano a dirsi, ma dell’associazione non fa parte una delle pizzerie più celebri e accorsate della città, «Brandi», che nel suo blasone ha l’invenzione della Margherita. «La pizza non si fa con regole studiate a tavolino» commenta Paolo Pagnani, gestore del locale di via Sant’Anna di Palazzo, a Chiaia. «Noi siamo per la pizza tradizionale». Quindi niente mozzarella di bufala («Che si mangia da sola»), ma fior di latte. Olio? «L’extravergine è una regola imposta. La pizza è sempre stata fatta con quello di semi. O addirittura, come qualcuno ancora fa in Costiera, con lo strutto. La pizza era un alimento povero, ma che doveva saziare». E la lievitazione? «Dicono che bastano quattro ore? Noi facciamo crescere la pasta per il doppio del tempo». Per Pagnani, la grande distinzione da fare è tra pizzaioli artigianali e industriali: «E di industriali, anche se fanno un prodotto all’apparenza buono, a Napoli ce ne sono tanti, e, secondo me sono solo dei fast food». La Margherita non ha mai derogato alla sua libertà e verginità. Per darsi un contegno, ormai tutte le pizzerie hanno inserito nei menu, da anni e anni, una variante deluxe. La chiamano Doc, Verace, Extra o con altri superlativi. «A Napoli nessuno applica le regola della Verace Pizza» ammette Salvatore Grasso di «Gorizia 1916» a via Bernini al Vomero. «Si usa l’olio di semi, e il fior di latte. La mozzarella è sconsigliata per il vero intenditore: troppo siero e troppo umida». Condimenti a parte, sulla sfoglia, la cottura, il forno e l’impasto sono tutti d’accordo. Anche se mettono in guardia contro la diffusione di farine americane poco adatte alla bisogna. Il tasto dolente restano i pizzaioli. «Uno bravo a Napoli può guadagnare anche tremila euro al mese» spiega Grasso. «Ma sono pochi e d’estate scarseggiano perché preferiscono trasferirsi sulla Riviera romagnola. Fanno turni massacranti, da mercenari, ma li pagano meglio e soprattutto hanno una clientela di bocca buona, che non conosce la vera pizza». Per loro non c’è bollino europeo che tenga.
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