NEW YORK—Dopo averli ribattezzati «la Generazione Q», cioè «quieta» (ma in tono dispregiativo), il leggendario columnist del New York Times, Thomas Friedman, chiama alle armi i ventenni di oggi. «Siete troppo apatici, passivi e computerizzati, le rivoluzioni non si combattono nel mondo virtuale ma nelle piazze. Fate come Martin Luther King e Bobby Kennedy e scoprite l’attivismo vecchia maniera ».
Giovani al computer
L’editoriale, uno dei più letti sul sito dell’autorevole quotidiano, ha suscitato un intenso dibattito in un’America dove solo il 32% dei quasi 27 milioni di potenziali elettori tra i 18 e i 24 anni si sono recati alle urne alle ultime elezioni. Cioè, la metà della popolazione tra i 45 e i 64 anni e il 50% in meno rispetto ai giovani americani che votarono nel 1972, all’apice della contestazione contro la guerra in Vietnam. Mase «votare è roba da vecchi », come recita cinicamente una T-shirt che va a ruba nella catena di negozi per giovani metropolitani Urban Outfitters, Friedman non ci sta. «La nuova generazione di studenti universitari mi lascia perplesso e insieme sorpreso », dice lo scrittore-editorialista. «Sorpreso perché è molto più ottimista ed idealista di quanto non dovrebbe essere. Perplesso perché è meno radicale e politicamente impegnata di quando è tenuta ad essere». Il problema? «La GenerazioneQpassa troppo tempo online e ciò è un male per sé e per il Paese». Dietro questo atteggiamento qualunquista si nasconde, infatti, un futuro potenzialmente disastroso. «I membri della Generazione Q passeranno la loro intera vita da adulti a risollevarsi dal deficit che noi, la "Generazione Avida" di George W. Bush, stiamo lasciandogli».
LA RESPONSABILITA' DEI MEDIA - Una buona parte del biasimo spetta ai media. «Durante una recente visita alla sua università— incalza Friedman— mia figlia mi ha chiesto che fine ha fatto la terrificante storia sui ghiacci artici che si sciolgono per colpa dell’attività umana ad un ritmo che nessuno avrebbemai potuto presagire ». Pubblicata lo scorso 2 ottobre sulla prima pagina del New York Times, l’allarmistica notizia da allora è letteralmente sparita dai media. Mase nessun candidato presidenziale si è preso la briga di incorporarla nei suoi proclami elettorali, la colpa è, ancora una volta, degli under 24. Che se ne stanno seduti di fronte ai loro computer dalla mattina alla sera, «invece di porre le domande più scomode agli aspiranti in corsa per la Casa Bianca».
Al termine del suo sfogo, che tradisce i suoi trascorsi di contestatore alla Brandeis University, negli anni 70, Friedman indica però una via d’uscita, l’unica possibile: «L’America ha bisogno di una scossa di idealismo, attivismo ed indignazione.
A questo sono sempre serviti i ventenni: per accendere il fuoco nelle vene della nazione».
La sua ricetta? «Mettete da parte le email, le petizioni online e i click del mouse e organizzatevi, scendendo numerosissimi nelle piazze».
Anche lui propone, insomma, una sorta di «ritorno al futuro »: «Perché Martin Luther King e Robert Kennedy non hanno cambiato il mondo chiedendo alla gente di sottoscrivere una crociata su Facebook o scaricando piattaforme dal computer. L’attivismo può funzionare solo alla vecchia maniera perché la politica virtuale è, appunto, soltanto quello. Virtuale».
Alessandra Farkas
11 ottobre 2007
Giovani al computer
L’editoriale, uno dei più letti sul sito dell’autorevole quotidiano, ha suscitato un intenso dibattito in un’America dove solo il 32% dei quasi 27 milioni di potenziali elettori tra i 18 e i 24 anni si sono recati alle urne alle ultime elezioni. Cioè, la metà della popolazione tra i 45 e i 64 anni e il 50% in meno rispetto ai giovani americani che votarono nel 1972, all’apice della contestazione contro la guerra in Vietnam. Mase «votare è roba da vecchi », come recita cinicamente una T-shirt che va a ruba nella catena di negozi per giovani metropolitani Urban Outfitters, Friedman non ci sta. «La nuova generazione di studenti universitari mi lascia perplesso e insieme sorpreso », dice lo scrittore-editorialista. «Sorpreso perché è molto più ottimista ed idealista di quanto non dovrebbe essere. Perplesso perché è meno radicale e politicamente impegnata di quando è tenuta ad essere». Il problema? «La GenerazioneQpassa troppo tempo online e ciò è un male per sé e per il Paese». Dietro questo atteggiamento qualunquista si nasconde, infatti, un futuro potenzialmente disastroso. «I membri della Generazione Q passeranno la loro intera vita da adulti a risollevarsi dal deficit che noi, la "Generazione Avida" di George W. Bush, stiamo lasciandogli».
LA RESPONSABILITA' DEI MEDIA - Una buona parte del biasimo spetta ai media. «Durante una recente visita alla sua università— incalza Friedman— mia figlia mi ha chiesto che fine ha fatto la terrificante storia sui ghiacci artici che si sciolgono per colpa dell’attività umana ad un ritmo che nessuno avrebbemai potuto presagire ». Pubblicata lo scorso 2 ottobre sulla prima pagina del New York Times, l’allarmistica notizia da allora è letteralmente sparita dai media. Mase nessun candidato presidenziale si è preso la briga di incorporarla nei suoi proclami elettorali, la colpa è, ancora una volta, degli under 24. Che se ne stanno seduti di fronte ai loro computer dalla mattina alla sera, «invece di porre le domande più scomode agli aspiranti in corsa per la Casa Bianca».
Al termine del suo sfogo, che tradisce i suoi trascorsi di contestatore alla Brandeis University, negli anni 70, Friedman indica però una via d’uscita, l’unica possibile: «L’America ha bisogno di una scossa di idealismo, attivismo ed indignazione.
A questo sono sempre serviti i ventenni: per accendere il fuoco nelle vene della nazione».
La sua ricetta? «Mettete da parte le email, le petizioni online e i click del mouse e organizzatevi, scendendo numerosissimi nelle piazze».
Anche lui propone, insomma, una sorta di «ritorno al futuro »: «Perché Martin Luther King e Robert Kennedy non hanno cambiato il mondo chiedendo alla gente di sottoscrivere una crociata su Facebook o scaricando piattaforme dal computer. L’attivismo può funzionare solo alla vecchia maniera perché la politica virtuale è, appunto, soltanto quello. Virtuale».
Alessandra Farkas
11 ottobre 2007
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