Qualsiasi decisione sulla base veneta non pregiudicherebbe i rapporti Italia-Usa
(da Aesse 1 2007)
Forse l’idea migliore la ha avuta John Kerry, che nel 2004 cercò di fermare la rielezione di George W. Bush alla Casa Bianca. Il senatore, che potrebbe essere ancora il candidato democratico nel 2008, ha detto che su Vicenza non è necessario fare barricate né da una parte né dall’altra. Si tratta di una questione pratica di cui occorre misurare solo la convenienza da diversi punti di vista.
Per Kerry la base di Vicenza ha un valore strategico importante ma evidentemente non decisivo. Pertanto gli «Stati Uniti devono ascoltare il parere delle popolazioni locali. Se c’è una forte opposizione si può anche decidere di rinunciare perché l’America non vuole opprimere nessuno».
In effetti, di basi gli Stati Uniti ne hanno installate numerose anche in alcuni Stati dell’ex Urss senza scandali, nemmeno a Mosca. Base più o base meno, la strategia americana viene garantita da una presenza più estesa di quanto non fosse al tempo della guerra fredda.
Vicenza non può che aver perso, nel frattempo, parte della sua importanza. Il suo rilievo logistico ha spinto alla proposta di ampliamento che rientra in un’ordinarietà che non merita l’enfasi e le mobilitazioni odierne. Le forze di contrasto sono di due tipi e talora sembrano coincidere: il primo tipo è di pura e semplice opposizione agli Stati Uniti qualunque cosa propongano; l’altro è causato da una valutazione dell’impatto ambientale minaccioso non per quello che è segnato sulle carte, ma per quello che in futuro potrebbe essere fatto. Poi c’è la posizione dei favorevoli alla base per le entrate di lavoro e di valuta.
Vista in prospettiva, la questione rimane modesta qualunque cosa si decida, tra mille confusioni. La più importante riguarda il presunto impegno italiano, senza firme, a consentire l’allargamento della base senza, però, ancora sapere se il “sì” o il “no” debbano dirlo il comune di Vicenza o il governo.
Pertanto, qualora si rispondesse “no” alla richiesta Usa non sarebbe la fine del mondo e non sarebbe neppure la crisi dei rapporti tra Italia e Stati Uniti. Quando gli spagnoli sfrattarono da Torrejon i bombardieri strategici, questi furono trasferiti da noi e gli americani non ruppero con gli spagnoli.
La questione dei rapporti tra Italia e Stati Uniti è stata comunque sollevata. Al di là della base sono emersi elementi di polemica utili per qualche chiarimento. La situazione degli americani in Europa non è quella del passato. Bush ha compromesso i rapporti con gli alleati con la sua politica estera unilaterale e arrogante, passando sopra ogni richiesta e offerta di collaborazione costruttiva e ragionata. Oggi le cose per tale strategia vanno male, perché il fallimento iracheno è dichiarato e un mutamento è in corso, malgrado la decisione di inviare altri soldati. La ricerca di una via d’uscita dopo il Rapporto Baker si è fatta urgente. L’opinione pubblica americana rigetta la linea Bush. Al Congresso degli Stati Uniti i democratici contrari all’intervento sono diventati la maggioranza.
Tuttavia, tuttavia… il problema rimane aperto. Non si può cancellare un conflitto in atto e dalla situazione data si deve partire. Dobbiamo muoverci dal presupposto che l’interlocutore di Washington sarà, o già è, democratico. Pertanto, le risposte da dare sono rivolte agli inquilini che andranno alla Casa Bianca. Vicenza è un puntino insignificante che solo il fondamentalismo nullista di un’estrema sinistra del pensiero debole fa emergere dall’insignificanza.
La revisione dei rapporti con gli Usa non riguarda noi, ma gli stessi americani che stanno cambiando politica, senza valorizzazione ideologica di contrasti dati.
Ruggero Orfei
(da Aesse 1 2007)
Forse l’idea migliore la ha avuta John Kerry, che nel 2004 cercò di fermare la rielezione di George W. Bush alla Casa Bianca. Il senatore, che potrebbe essere ancora il candidato democratico nel 2008, ha detto che su Vicenza non è necessario fare barricate né da una parte né dall’altra. Si tratta di una questione pratica di cui occorre misurare solo la convenienza da diversi punti di vista.
Per Kerry la base di Vicenza ha un valore strategico importante ma evidentemente non decisivo. Pertanto gli «Stati Uniti devono ascoltare il parere delle popolazioni locali. Se c’è una forte opposizione si può anche decidere di rinunciare perché l’America non vuole opprimere nessuno».
In effetti, di basi gli Stati Uniti ne hanno installate numerose anche in alcuni Stati dell’ex Urss senza scandali, nemmeno a Mosca. Base più o base meno, la strategia americana viene garantita da una presenza più estesa di quanto non fosse al tempo della guerra fredda.
Vicenza non può che aver perso, nel frattempo, parte della sua importanza. Il suo rilievo logistico ha spinto alla proposta di ampliamento che rientra in un’ordinarietà che non merita l’enfasi e le mobilitazioni odierne. Le forze di contrasto sono di due tipi e talora sembrano coincidere: il primo tipo è di pura e semplice opposizione agli Stati Uniti qualunque cosa propongano; l’altro è causato da una valutazione dell’impatto ambientale minaccioso non per quello che è segnato sulle carte, ma per quello che in futuro potrebbe essere fatto. Poi c’è la posizione dei favorevoli alla base per le entrate di lavoro e di valuta.
Vista in prospettiva, la questione rimane modesta qualunque cosa si decida, tra mille confusioni. La più importante riguarda il presunto impegno italiano, senza firme, a consentire l’allargamento della base senza, però, ancora sapere se il “sì” o il “no” debbano dirlo il comune di Vicenza o il governo.
Pertanto, qualora si rispondesse “no” alla richiesta Usa non sarebbe la fine del mondo e non sarebbe neppure la crisi dei rapporti tra Italia e Stati Uniti. Quando gli spagnoli sfrattarono da Torrejon i bombardieri strategici, questi furono trasferiti da noi e gli americani non ruppero con gli spagnoli.
La questione dei rapporti tra Italia e Stati Uniti è stata comunque sollevata. Al di là della base sono emersi elementi di polemica utili per qualche chiarimento. La situazione degli americani in Europa non è quella del passato. Bush ha compromesso i rapporti con gli alleati con la sua politica estera unilaterale e arrogante, passando sopra ogni richiesta e offerta di collaborazione costruttiva e ragionata. Oggi le cose per tale strategia vanno male, perché il fallimento iracheno è dichiarato e un mutamento è in corso, malgrado la decisione di inviare altri soldati. La ricerca di una via d’uscita dopo il Rapporto Baker si è fatta urgente. L’opinione pubblica americana rigetta la linea Bush. Al Congresso degli Stati Uniti i democratici contrari all’intervento sono diventati la maggioranza.
Tuttavia, tuttavia… il problema rimane aperto. Non si può cancellare un conflitto in atto e dalla situazione data si deve partire. Dobbiamo muoverci dal presupposto che l’interlocutore di Washington sarà, o già è, democratico. Pertanto, le risposte da dare sono rivolte agli inquilini che andranno alla Casa Bianca. Vicenza è un puntino insignificante che solo il fondamentalismo nullista di un’estrema sinistra del pensiero debole fa emergere dall’insignificanza.
La revisione dei rapporti con gli Usa non riguarda noi, ma gli stessi americani che stanno cambiando politica, senza valorizzazione ideologica di contrasti dati.
Ruggero Orfei
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