Dopo qualche settimana dallo svolgimento della manifestazione nazionale contro il lavoro nero tenutasi a Foggia ritorniamo sull'argomento con un intervento di Antonio Russo, presidente delle ACLI di Capitanata che ci offre delle opportune riflessioni. Del resto, purtroppo, il lavoro nero non scade con la manifestazione.
VENTIMILA PER LA DIGNITA’
L’avevamo atteso negli ultimi anni con speranza e finalmente è arrivato il giorno del riscatto. Sabato 22 ottobre circa 20.000 persone tra lavoratori, giovani, donne e immigrati hanno sfilato per le strade di Foggia per manifestare contro i gravi fatti di sfruttamento del lavoro nero, denunciati in un reportage de l’Espresso la scorsa estate.
Nei due grandi cortei che hanno attraversato le vie centrali della città, c’erano tutti a manifestare contro un’idea di lavoro che nel tempo, da strumento di liberazione e di libertà, è divenuto strumento di schiavitù della post modernità. Il sindacato, lo Stato, le Istituzioni locali, le organizzazioni di volontariato insieme per dire basta ad una cultura dello sfruttamento umano che ormai sembra non avere più limiti. Contro un pensiero che subdolamente si impossessa di una “civiltà incivile” che, scendendo a patti con le sue comodità e con i suoi interessi, accetta di annullare qualunque diritto, da quello fondamentale di esistere, a quelli più avanzati del lavoro e della cittadinanza.
Ventimila bandiere contro un miserabile substrato culturale che, come in un pellicola in bianco e nero di inizio secolo, ripropone, nell’anno del Signore 2006, l’idea di una provincia simile alla Virginia delle piantagioni di cotone dello zio Sem.
Eppure è bastato poco a quel fiume di gente venuta da tutto il paese per capire che Foggia non è la capitale dell’illegalità italiana e dello sfruttamento mondiale. E neppure una sorta di paradiso degli schiavisti in doppio petto. La sua storia racconta di lotte sindacali e bracciantili che dopo la guerra l’hanno resa terra di passioni per la dignità dei lavoratori e per la libertà; terra di amore e di morte perché mai più il sopruso e la prepotenza dei prepotenti del tempo ricadessero sulle future generazioni; perché il prezzo del riscatto dei padri per i figli venisse pagato una volta per tutte e per tutti i figli.
Pensare che proprio lì, nelle campagne e nelle piazze di molte delle città poste nel cuore del “triangolo dello sfruttamento”, quasi mezzo secolo fa Giuseppe Di Vittorio e i leader del sindacalismo cattolico parlavano di diritti e di giustizia sociale come mezzi per vincere l’ignoranza e la povertà. Solo 60 anni dopo, come in un gioco di specchi tra passato e presente, è cambiata la scena ma non i soggetti. E’ cambiata prevalentemente la nazionalità di chi viene sfruttato, ma non lo sfruttamento. Sono cambiati i caporali, ma il caporalato è vivo e imperversa nella campagne spesso disturbato solo dalle denunce delle organizzazioni sindacali e del lavoro. Tutto il resto è coperto dall’indifferenza generale.
Così capita ai cittadini della Capitanata di scoprire che qualcuno ha finalmente denunciato sui giornali che in quel casolare abbandonato dormono, in condizioni disumane, venti polacchi o senegalesi o rumeni che, come ombre invisibili, si nascondono per evitare la minaccia di un rimpatrio forzato. Così ci si risveglia da qualche anno nelle giornate calde d’agosto sapendo di convivere con lo scandalo dei lavoratori in nero che per tre mesi all’anno, nel periodo della raccolta del pomodoro e dell’uva, riempiono le campagne del foggiano .
Eppure, nonostante tutto, la città che vivo e conosco è assolutamente normale: forse fin troppo simile a molte altre città del sud e del nord del Paese dove l’abitudine a voltare lo sguardo altrove è divenuta assuefazione. Forse il male di cui più profondamente soffre si chiama indifferenza, incapacità a comprendere che nel destino degli altri, lavoratori o cittadini che siano, c’è il suo stesso destino e quello dei suoi figli.
Vive, come molte province italiane, una crisi immuno-culturale, una sorta di malattia di inizio millennio che si manifesta facendo perdere le capacità di reagire e indebolendo i gangli vitali della coesione sociale.
In ventimila eravamo nella piazza più bella di Foggia per manifestare contro lo sfruttamento del lavoro nero, solidali con il nordafricano Aziz Dainel, lavoratore agricolo, con la polacca Sniezko Boguslawa, collaboratrice familiare e con la foggiana Lina Ambrosio, rappresentante dei lavoratori precari, ma avevamo negli occhi i luoghi dello sfruttamento quotidiano delle mille città e periferie italiane, dove le morti bianche sui cantieri edili e le nuove povertà determinate dalla “precariatà flessibile” fanno ogni giorno migliaia di vittime.
Ventimila bandiere, tra le quali quella delle ACLI, per opporsi a tutte le forme di violenza contro la dignità dei lavoratori e contro altre forme di sfruttamento del lavoro non anagrafabili dalle nostre Camere di Commercio come, ad esempio, quelle che spingono, ogni giorno, le ragazzine dell’est alla schiavitù della prostituzione, lasciando che si perpetui uno dei peggiori reati contro la vita.
In ventimila per dire che dal sud, da Foggia, insieme, le grandi organizzazioni dei lavoratori sono pronte a rilanciare la sfida del lavoro come sfida moderna per la libertà e la democrazia .
Antonio Russo
Presidente Provinciale ACLI Foggia
VENTIMILA PER LA DIGNITA’
L’avevamo atteso negli ultimi anni con speranza e finalmente è arrivato il giorno del riscatto. Sabato 22 ottobre circa 20.000 persone tra lavoratori, giovani, donne e immigrati hanno sfilato per le strade di Foggia per manifestare contro i gravi fatti di sfruttamento del lavoro nero, denunciati in un reportage de l’Espresso la scorsa estate.
Nei due grandi cortei che hanno attraversato le vie centrali della città, c’erano tutti a manifestare contro un’idea di lavoro che nel tempo, da strumento di liberazione e di libertà, è divenuto strumento di schiavitù della post modernità. Il sindacato, lo Stato, le Istituzioni locali, le organizzazioni di volontariato insieme per dire basta ad una cultura dello sfruttamento umano che ormai sembra non avere più limiti. Contro un pensiero che subdolamente si impossessa di una “civiltà incivile” che, scendendo a patti con le sue comodità e con i suoi interessi, accetta di annullare qualunque diritto, da quello fondamentale di esistere, a quelli più avanzati del lavoro e della cittadinanza.
Ventimila bandiere contro un miserabile substrato culturale che, come in un pellicola in bianco e nero di inizio secolo, ripropone, nell’anno del Signore 2006, l’idea di una provincia simile alla Virginia delle piantagioni di cotone dello zio Sem.
Eppure è bastato poco a quel fiume di gente venuta da tutto il paese per capire che Foggia non è la capitale dell’illegalità italiana e dello sfruttamento mondiale. E neppure una sorta di paradiso degli schiavisti in doppio petto. La sua storia racconta di lotte sindacali e bracciantili che dopo la guerra l’hanno resa terra di passioni per la dignità dei lavoratori e per la libertà; terra di amore e di morte perché mai più il sopruso e la prepotenza dei prepotenti del tempo ricadessero sulle future generazioni; perché il prezzo del riscatto dei padri per i figli venisse pagato una volta per tutte e per tutti i figli.
Pensare che proprio lì, nelle campagne e nelle piazze di molte delle città poste nel cuore del “triangolo dello sfruttamento”, quasi mezzo secolo fa Giuseppe Di Vittorio e i leader del sindacalismo cattolico parlavano di diritti e di giustizia sociale come mezzi per vincere l’ignoranza e la povertà. Solo 60 anni dopo, come in un gioco di specchi tra passato e presente, è cambiata la scena ma non i soggetti. E’ cambiata prevalentemente la nazionalità di chi viene sfruttato, ma non lo sfruttamento. Sono cambiati i caporali, ma il caporalato è vivo e imperversa nella campagne spesso disturbato solo dalle denunce delle organizzazioni sindacali e del lavoro. Tutto il resto è coperto dall’indifferenza generale.
Così capita ai cittadini della Capitanata di scoprire che qualcuno ha finalmente denunciato sui giornali che in quel casolare abbandonato dormono, in condizioni disumane, venti polacchi o senegalesi o rumeni che, come ombre invisibili, si nascondono per evitare la minaccia di un rimpatrio forzato. Così ci si risveglia da qualche anno nelle giornate calde d’agosto sapendo di convivere con lo scandalo dei lavoratori in nero che per tre mesi all’anno, nel periodo della raccolta del pomodoro e dell’uva, riempiono le campagne del foggiano .
Eppure, nonostante tutto, la città che vivo e conosco è assolutamente normale: forse fin troppo simile a molte altre città del sud e del nord del Paese dove l’abitudine a voltare lo sguardo altrove è divenuta assuefazione. Forse il male di cui più profondamente soffre si chiama indifferenza, incapacità a comprendere che nel destino degli altri, lavoratori o cittadini che siano, c’è il suo stesso destino e quello dei suoi figli.
Vive, come molte province italiane, una crisi immuno-culturale, una sorta di malattia di inizio millennio che si manifesta facendo perdere le capacità di reagire e indebolendo i gangli vitali della coesione sociale.
In ventimila eravamo nella piazza più bella di Foggia per manifestare contro lo sfruttamento del lavoro nero, solidali con il nordafricano Aziz Dainel, lavoratore agricolo, con la polacca Sniezko Boguslawa, collaboratrice familiare e con la foggiana Lina Ambrosio, rappresentante dei lavoratori precari, ma avevamo negli occhi i luoghi dello sfruttamento quotidiano delle mille città e periferie italiane, dove le morti bianche sui cantieri edili e le nuove povertà determinate dalla “precariatà flessibile” fanno ogni giorno migliaia di vittime.
Ventimila bandiere, tra le quali quella delle ACLI, per opporsi a tutte le forme di violenza contro la dignità dei lavoratori e contro altre forme di sfruttamento del lavoro non anagrafabili dalle nostre Camere di Commercio come, ad esempio, quelle che spingono, ogni giorno, le ragazzine dell’est alla schiavitù della prostituzione, lasciando che si perpetui uno dei peggiori reati contro la vita.
In ventimila per dire che dal sud, da Foggia, insieme, le grandi organizzazioni dei lavoratori sono pronte a rilanciare la sfida del lavoro come sfida moderna per la libertà e la democrazia .
Antonio Russo
Presidente Provinciale ACLI Foggia
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