Luigia Gariboldi aveva 16 anni quando ha scelto di essere un promotore sociale delle Acli. Adesso è in pensione e continua, insieme a suo marito, ad assistere gli utenti del Patronato Acli di Milano. Impossibile contare il numero di persone e pratiche seguite. Da due anni e mezzo ha accettato un’altra sfida: entrare in carcere e portare lì la sua esperienza, a servizio dei reclusi che necessitano di assistenza previdenziale. Ogni settimana va nella casa di reclusione di Opera, la più grande in Italia, e si occupa di domande per il riconoscimento di invalidità civile, assegni familiari, istanze per il riconoscimento dei requisiti ridotti per disoccupazione.
“I detenuti mostrano gratitudine e grande rispetto – racconta Luigia –. Abbiamo contatti con detenuti stanziali che scontano pene superiori ai 7 anni. Entriamo in una stanzetta con un blocco per gli appunti, una biro e la testa. Siamo da soli con loro e non c’è mai stato un episodio spiacevole. A volte i detenuti si arrabbiano, ma non con noi: con la burocrazia. Per loro è un tabù – confida Luigia che chiarisce con serietà – lì dentro si perde il contatto con la realtà. Si fatica moltissimo per trasmettere il senso delle cose che accadono fuori, i detenuti sono isolati e soli, perdono anche dimensione dei loro diritti di persone. Ogni settimana, durante le nostre visite, riceviamo dalle 6 alle 10 persone, raccogliamo tutte le informazioni e quando usciamo ci aspetta il triplo del lavoro che facciamo dentro. È un impegno importante e per questo stiamo cercando di formare alcuni detenuti affinché possano imparare a fare le pratiche: intanto danno una mano a noi e poi riprendono contatto con la vita” conclude Luigia che in questi 30 mesi ha imparato a conoscere il mondo del carcere e racconta con grande umanità e senza accenni di retorica o buonismo le persone che si trova davanti. “I detenuti sono persone abbandonate a se stesse e basta poco perché riprendano dignità e forza; con piccole aperture cambiano volto, si capisce con estrema facilità la loro fragilità. Vivono in solitudine, le famiglie spesso li abbandonano. Il carcere smorza reazioni, qualcuno reagisce bene, ma la maggior parte no, perde il senso della realtà e quando esce è senza mezzi per relazionarsi con la società”. Luigia, con il suo lavoro in carcere diventa allora un punto di riferimento: “Oltre al carcere di Opera, sono attiva come promotrice sociale presso lo sportello del Patronato Acli in via della Signora a Milano. In questi anni è capitato che persone che avevo seguito in carcere, una volta fuori, venissero in ufficio per concludere le pratiche già cominciate, oppure per farne di nuove, o più semplicemente per chiedere una mano. Quando escono non sanno dove sbattere la testa, hanno enormi problemi a cercare un lavoro e una casa. Con i miei colleghi offriamo ascolto e comprensione”.
Quello di Luigia non è un caso isolato: sono una trentina su tutto il territorio nazionale le sedi provinciali del Patronato Acli che entrano con frequenza settimanale, quindicinale o mensile, in istituti di detenzione e si occupano di richieste di riconoscimento di invalidità, assegni ai nuclei familiari, pensioni, assegni sociali, richieste di indennità di disoccupazioni e pratiche varie per gli immigrati.
Al Nord come al Sud. A Napoli, il Patronato Acli entra nella casa circondariale di Poggioreale da 40 anni e da un paio ha ripreso anche il servizio nell’Opg, l’ospedale psichiatrico giudiziario. Un totale di quasi 1000 detenuti. I due istituti sono molto diversi fra loro e se nell’Opg le pratiche che il Patronato lavora sono soprattutto legate all’infermità e non esiste un contatto diretto con i detenuti, a Poggioreale l’impegno è diretto. “Lo spettro delle attività svolte è molto ampio: Invalidità, previdenza, disoccupazione ‒ spiega il direttore del Patronato Acli di Napoli,Pasquale De Dilectis, che da 40 anni è presente nella casa circondariale ‒. Dall’esterno è difficile capire quali sia
no i problemi di queste persone: perdono contatto con la propria vita, con l’esterno, si dimenticano di avere dei diritti. Abbiamo a che fare con molti giovani, la media dell’età delle nostre richieste per invalidità civile è di 45 anni, molti sono malati e soffrono di patologie legate alla detenzione”.
Non solo pratiche. A volte gli operatori raccolgono richieste personali e delicate che non possono soddisfare e che consegnano al personale incaricato. “Ci hanno chiesto un paio di volte di portare messaggi privati fuori dal carcere e di farli avere alle famiglie ‒ spiega ancora il direttore De Dilectis ‒. Noi naturalmente non possiamo farlo e giriamo la richiesta al personale dell’area pedagogica dell’istituto. Queste richieste raccontano la costante attenzione dei detenuti alle proprie famiglie: ‘mi saluti mia moglie’ oppure ‘Ha visto mio figlio? È cresciuto?’. Niente di più facile che un detenuto ti chieda dell’ultimo incontro avuto con la sua famiglia per questioni relative alla pratica in corso. Il pensiero è sempre là!”.
“Sono persone sole da cui le famiglie prendono le distanze. In carcere i pensieri sono tanti. All’inizio le famiglie vanno a trovarli, poi sempre meno, alla fine quasi li disconoscono e tutto va a rotoli. Chi sta fuori ‒ conclude ‒ vuole rifarsi una vita, chi sta dentro resta invece legato al passato, al ricordo dei figli e cerca nei vecchi affetti un motivo per andare avanti mentre subentra la rassegnazione”.
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