Il Partito Democratico ritrovi le sue radici.
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 11 aprile 2010
I lettori mi perdoneranno se, di fronte all’ennesima discussione sulla riforma del Partito democratico, mi permetto di riprendere, con solo qualche aggiornamento, le proposte che, meno di un anno fa, ho fatto sulle colonne di questo stesso giornale. Il rumoroso dibattito post-elettorale sul ruolo dei partiti politici e sul loro rapporto con i cittadini mi riporta infatti indietro di qualche decennio quando, di fronte all’irreversibile crisi della Democrazia cristiana, proposi di costruire il partito su base strettamente regionale ma con un forte patto federativo nazionale. In poche parole si sarebbe dovuto dare vita al Partito popolare lombardo, emiliano, laziale o siciliano ma tutti questi partiti sarebbero stati obbligatoriamente federati alla Democrazia cristiana italiana. Non se ne fece nulla perché gli avvenimenti presero la mano prima ancora che il dibattito potesse essere nemmeno iniziato. E forse non sarebbe comunque iniziato.
Mi sembra oggi utile per il Partito democratico dare spazio a questo dibattito che si è finalmente riaperto. Il risultato delle elezioni è stato infatti inferiore alle attese e la comune interpretazione di questo risultato è che la struttura del partito stesso sia diventata fortemente autoreferenziale, con rapporti troppo deboli con il territorio e con i problemi quotidiani degli italiani, messi in secondo piano dai ristretti obiettivi dei dirigenti e delle correnti.
Per questo motivo sento che sia opportuno ritornare su quella vecchia idea. Gli iscritti al Partito democratico di ogni regione italiana dovrebbero cioè eleggere, naturalmente tramite le primarie, il proprio segretario regionale.
L’esecutivo nazionale dovrebbe essere semplicemente formato dai venti segretari regionali, avendo il coraggio di cancellare gli organi nazionali che si sono dimostrati inefficaci. A questi venti “uomini forti” dovrebbe essere demandato il compito di eleggere il segretario nazionale, di decidere sulle grandi strategie politiche del partito e, naturalmente insieme agli organi regionali, le candidature per le rappresentanze parlamentari. La forza dei segretari regionali dovrebbe essere ponderata non in base agli iscritti ma in base ai voti riportati alle elezioni politiche, perché il raccolto di un partito non si basa sulle tessere ma sui voti.
Penso quindi a un esecutivo del partito formato esclusivamente dai segretari regionali, senza le infinite code di benemeriti e aventi diritto, compresi gli ex segretari del partito e gli ex presidenti del Consiglio. La politica del partito deve essere infatti esclusivamente decisa da coloro che, essendo scelti tramite elezione, rispondono direttamente alla base del partito.
È evidente che tutto questo corrisponde alla necessità di un serio federalismo nel quale Nord e Sud siano correttamente rappresentati e in cui si discuta in modo chiaro e definitivo la linea da seguire oggi in Parlamento e, domani, al governo.
Se si pensa in modo coerente ad un’Italia federale, questo federalismo deve infatti partire dai partiti che, nonostante la generale crisi in cui versano, sono anche oggi l’insostituibile fondamento di ogni sistema democratico.
Questa riflessione sul federalismo non vale naturalmente solo per il Partito democratico: ritengo infatti che nessuna grande decisione sul futuro del Paese possa essere presa senza che ad essa partecipino in modo determinante i rappresentanti di tutte le regioni italiane. Ritengo però che sia ancora più necessaria per il Partito democratico che, per completare le fusione delle radici storiche che lo compongono, ha più degli altri bisogno di rinnovare i modelli di reclutamento della sua classe dirigente e di costruire un luogo in cui le decisioni prese non possano più essere messe in discussione. Non si può infatti continuare con dibattiti senza fine nei quali si ritorna sempre al punto di partenza e ogni decisione viene sentita come provvisoria, per cui, ad esempio, dopo avere optato per il cancellierato si ritorna al presidenzialismo e dal presidenzialismo si finisce con la scelta di non cambiare nulla, senza che si capisca come e da chi tutto questo venga deciso. La trasparenza esige che ci sia una sede in cui si discuta in modo aperto e si decida la linea del partito senza che essa possa essere messa in discussione da interviste o dichiarazioni di leader o di notabili.
Certamente questo implica un cambiamento radicale della vita del partito e della formazione della sua classe dirigente e accentra sui venti segretari regionali poteri e responsabilità alle quali il Partito democratico non è familiare. Questo mi sembra tuttavia l’unica soluzione per fare funzionare un partito in modo trasparente ed efficiente in un momento in cui tutti dicono di volere il federalismo ma in cui nessuno lo vuole costruire in modo democratico e rispettoso delle esigenze di tutto il Paese.
Naturalmente tutto questo può funzionare solo se si impongono durissime regole di pulizia e di trasparenza nelle procedure di tesseramento. Tutto questo potrebbe sembrare una banalità ma, a oltre 60 anni dall’approvazione della Costituzione non si è ancora dato concreta realizzazione all’art. 49, che dice con estrema chiarezza che i cittadini hanno diritto di associarsi in partiti per concorrere “con metodo democratico” a determinare la politica nazionale.
Cominci quindi il Partito democratico a volere l’attuazione di questo articolo, se non altro perché i suoi elettori sono più vigili di tutti gli altri quando si tratta di trasparenza e di democrazia. Questo non è un vizio ma una virtù.
Mi accorgo che queste osservazioni sono guidate dall’astrattezza di chi è ormai fuori dalla politica. Esse mi sembrano tuttavia utili per spingere all’approfondimento di un indispensabile dibattito.
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