L'emergenza sono gli italiani |
La questione "rom" vissuta e guardata da un altro punto di vista (da Aesse 5 2008) Oggi è venuto un padre di famiglia romeno (e rom). Era in cerca di un posto per sé e per la sua famiglia, dopo gli sgomberi di questi giorni qui a Roma. Sua figlia è malata di idrocefalia triventricolare, operata e seguita già da anni al Policlinico di Roma. Vive con una valvola in testa. Fino a ieri erano in baracca, lungo la riva del fiume. Oggi siamo riusciti a trovar loro un posto, domani non lo so. Ecco uno dei risvolti della “emergenza rom”, come la definiscono strumentalmente da qualche tempo. Un’emergenza in cui, tra le altre cose, le identità si confondono: rom o romeni? Un’ignoranza in cui tutto è uguale. Un’emergenza discriminatoria che da secoli si ripresenta a ondate, in genere in corrispondenza di momenti storici difficili. A me sembra che il vero disagio sia quello della società italiana, con una forte crisi di identità e valori che fa nascere la paura. E la paura ha bisogno di qualcuno cui dare la colpa e che non può difendersi. Il popolo rom è un popolo che non ha terra, né rappresentanza, né diritti, perché è un popolo sostanzialmente clandestino. Un popolo con cui ce la si può prendere senza che alcuno, da destra a sinistra, dal campanile o dalla piazza, proferisca parola. Si parla di “campi rom”… Ma i rom non vivono nei campi, che sono un’invenzione occidentale. La vera causa di tutta la situazione che stiamo vivendo è proprio la politica fallimentare dei “campi nomadi” sorti dagli anni ’60 in poi. Delle riserve dove tra l’altro non vivono più i rom, ma un sottoproletariato urbano che di rom non ha più nulla. Perché è nei famigerati campi rom che si è compiuto quel “genocidio culturale” che neanche Hitler riuscì a ottenere con risultati così vincenti. Ciascuno di questi campi, poi, costa a Roma circa un milione di euro l’anno all’amministrazione comunale. Soldi che vanno a tutto un indotto (anche di malaffare), che si scanna sui bandi e offre “servizi” collegati alla gestione dei campi: recupero scolastico, servizi igienici, attività culturali e ricreative di vario genere. Servizi e attività sovvenzionate non controllate e che spesso non sono davvero realizzate. Noi, già nel 2000, abbiamo proposto, insieme ad altre 7 famiglie, un progetto-pilota di un “vero” campo nomadi perfettamente autogestito, a costo zero: attivato con un prestito, tutto restituito, di 80 milioni di lire. È piaciuto in Francia e Spagna, ma non qui. Io sono un gagiò, non sono un rom. Ma un giorno ho deciso di condividere la vita dei rom nei campi. Dai rom sono stato accolto, e tra i rom ho vissuto e lavorato fino al 2001. Tra loro ho conosciuto anche mia moglie Dzemila, con cui ora divido anche le fatiche e le gioie del centro di accoglienza “Padre Arrupe”, nato col sostegno dei gesuiti del Centro Astalli, e della “Casa di Marco”, una casa famiglia per bambini, italiani e stranieri, che abbiamo aperto nel 2006. Una scelta di accoglienza fatta con lo stesso spirito che avevamo nei campi: fare un cammino “di liberazione” insieme ad altre persone, ad altre famiglie. Per me la parola integrazione è quindi una bellissima parola. Anche il nostro matrimonio è stato ed è un incontro tra culture diverse, vissuto come una risorsa in più. Anche se mia moglie resta una romnì e io resto un gagiò. E tali dobbiamo rimanere. (l’autore è il responsabile del Centro di prima accoglienza “Padre Arrupe” di Roma - www.padrearrupe.com) |
Carlo Stasolla
2 commenti:
good start
necessita di verificare:)
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