A 30 anni dalla sua morte, cosa conserviamo del modo di far politica dello statista Dc?
A 30 anni dalla sua morte, cosa conserviamo della visione e dello stile di Aldo Moro? Non sono facili le risposte. La sua visione era dentro una cultura dell’intesa, un avvicinamento tra le forze popolari che le rendesse più partecipi della comune eredità della Costituzione e delle grandi scelte euro-atlantiche, per consentire poi un’alternanza non traumatica. Un avvicinamento che potesse rimediare alla frattura della Guerra Fredda, la quale aveva interrotto precocemente la collaborazione al Governo, anche se per fortuna non alla Costituente. Quel disegno, pur momentaneamente interrotto con la sua morte, è andato avanti e, anzi, ha persino consentito il Partito democratico, con le energie di forze originariamente contrapposte e che si immaginava dovessero solo provvisoriamente convergere. Il Pd e il sistema politico odierno non sono quindi il frutto diretto, voluto, di Moro: sarebbe ingiusto attribuirli a lui ex post. Tuttavia è altresì vero che senza Moro, senza quell’avvicinamento che strada facendo è diventato qualcosa d’altro, non saremmo stati in grado di costruire un progetto così ambizioso. È un’eredità molto ricca e impegnativa: occorre, per questo, guardarsi dai rischi. Il fatto che proprio il Pd stia all’incrocio delle tradizioni che hanno dato vita al patto costituzionale non significa affatto che quest’ultimo sia suo patrimonio esclusivo. Anzi, esso si è rivelato fecondo proprio perché capace di integrare anche forze in origini ostili o nate solo in seguito. Inoltre, il particolare legame coi principi e i valori costituzionali non stanno a significare automaticamente capacità di trasferirli nelle scelte politiche innovative oggi richieste; capacità che richiede sforzo di immaginazione di fronte ai dilemmi della globalizzazione e alla doppia crisi dello Stato nazionale, dall’alto e dal basso, che non erano immaginabili nell’Italia del 1948. Sentirsi eredi significa sentirsi responsabili nell’innovazione, non proprietari gelosi. Quanto allo stile moroteo – pensoso, problematico e profondo – negli anni passati esso è stato nettamente minoritario nell’intero scacchiere politico. Solo ora, con l’apertura della nuova legislatura, si sta effettivamente riscoprendo l’esigenza di costruire ponti oltre le necessarie divisioni, valorizzando la capacità di argomentazione razionale. Ripensiamo, in particolare, agli interventi di Moro alla Costituente e, soprattutto, a quello nella seduta del 13 marzo 1947, dove invita a «costruire una casa comune nella quale dobbiamo ritrovarci tutti ad abitare insieme»; e a uno degli ultimi alla Camera, quello del 15 febbraio 1977 sull’atto relativo all’elezione del Parlamento europeo a suffragio universale, in cui rileva positivamente il «larghissimo consenso», fermo restando il fatto che «ciascuno di noi pensi di portare domani, nella realtà europea, la propria posizione». Un messaggio valido anche per la nuova legislatura, con la necessità di distinguere consenso sulle nuove regole e alternatività sulle scelte politiche.
Stefano Ceccanti
Stefano Ceccanti
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