sabato, aprile 19, 2008

La "rivoluzione" maggioritaria. È finita la cultura sottesa alla Costituzione materiale della prima fase della Repubblica

Le spinte alla semplificazione in politica premiano messaggi forti, talora rozzi. In questo senso il successo berlusconiano nel 2008 è gemello di quello del 1994.

Scomparsi valori di riferimento, di scena rimangono soluzioni taumaturgiche e rivendicazioni locali. In attesa delle spiegazioni dei sociologi, l’elezione dei parlamentari della XVI legislatura registra la scomparsa dalle assemblee delle incarnazioni politiche della cultura dei cattolici democratici, di quella socialista e di quella comunista, così come era successo, dopo il fascismo, a quella liberale.

La “rivoluzione” maggioritaria del 1994 raggiunge un traguardo. La fine della cultura sottesa alla Costituzione materiale della prima fase della Repubblica consegna il paese a quanto c’era prima di essa: una prospettiva fortemente diseguale sul piano dello sviluppo dei territori; una richiesta di minimo intervento della mano pubblica sul piano della attuazione dei diritti, con in cambio un affievolimento dei doveri comunitari; una tutela dei cittadini improntata alla natura e dimensione dei loro interessi materiali rispetto alla loro dignità di persona. Il contrario della società aperta di Popper.

Nella transizione italiana irrompono due contenitori a vocazione maggioritaria, la cui ragione di vita è il governo del paese: superflua la proposta di una propria visione. Il tema delle identità si riduce a forze che brandiscono la presunta tutela di interessi territoriali come valori. Nella terra di nessuno, quale l’Italia sembra essere oggi, tutto appare come un “ricominciare”.

Vale per il tema del lavoro, della sua condizione, del suo ruolo. La discussione aperta da diversi attori politici e da soggetti sociali presenta, anche qui, caratteri regressivi. Dopo oltre un decennio di perdita di potere di acquisto dei salari, la soluzione del problema non è l’aumento degli stipendi ma la detassazione di straordinari e quant’altro possa rimpinguare la parte mobile delle retribuzioni (premi di produttività, ecc.), a sgravio ulteriore (dopo la decontribuzione di Prodi), del costo del lavoro delle imprese. La reintroduzione delle gabbie salariali, ufficializzando la segmentazione del mercato del lavoro, è un’altra tesi di forze oggi al governo. Su questa strada è possibile ipotizzare la reintroduzione tra breve del cottimo.

Dal ’900 siamo migrati: i nuovi lavori, i nuovi modelli di produzione, le flessibilità necessarie a sfidare la globalizzazione, i “non luoghi” del lavoro, la costruzione di un nuovo welfare, infine, richiedono però visioni moderne, non ricette ottocentesche. Perché va “assicurato secondo giustizia il riconoscimento dei diritti e la soddisfazione delle esigenze materiali e spirituali dei lavoratori”

Gianfranco Astori

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