Il filosofo mito del ’68: un’eredità controversa
GIAN ENRICO RUSCONI
Nato in Germania nel 1898, Herbert Marcuse aveva assorbito gli umori della Republica di Weimar, aveva conosciuto e ammirato Martin Heidegger; aveva militato nei movimenti di sinistra. Andato in esilio in America per ragioni razziali, ha mantenuto rapporti per tutta la vita con la Scuola di Francoforte, i cui esponenti di spicco erano Max Horkheimer e Theodor W. Adorno.
Se ne parlerà stamane al festival della Filosofia organizzato al Parco della Musica a Roma da Giacomo Marramao e Paolo Flores d'Arcais dedicato all'eredità del ‘68. Anticipiamo una parte della riflessione di Gian Enrico Rusconi Un ricercatore che oggi ricostruisse il ‘68 e dintorni nei suoi aspetti intellettuali, al di là del biografismo sentimentale degli ex-sessantottini, si imbatterebbe in un filosofo settantenne in un modo di giovani e giovanissimi - un filosofo nel frattempo quasi dimenticato, Herbert Marcuse. È sorprendente la distanza tra l'immensa fama goduta allora e l'indifferenza di oggi. Dopo l'infatuazione da parte giovanile, durata un paio d'anni, Marcuse si è trovato presto sotto l'attacco concentrico dei marxisti (di varia scuola ma allora tutti potenti e intimidenti) e la reazione dei tradizionalisti di destra (che l'hanno accusato di avere incubato il terrorismo). Abbandonato dal movimento di protesta studentesco, che si è dissolto tra mille contraddizioni, Marcuse guardato con diffidenza e gelosia dal ceto accademico, è deceduto nel 1979 lasciando un'eredità ancora da valutare seriamente.
Marcuse, chi era costui? Nato in Germania nel 1898 aveva assorbito profondamente tutti gli umori di quella irripetibile esperienza culturale e politica che fu la Republica di Weimar. Aveva conosciuto e ammirato (come tutti, del resto, a quel tempo) Martin Heidegger; aveva messo insieme ontologia heideggeriana e marxismo critico, militando nel contempo nei movimenti di sinistra. Andato in esilio in America per ragioni razziali, ha mantenuto e approfondito i contatti con quella singolare comunità di studiosi ebreo-tedeschi, che si sarebbe fatta conoscere poi come «teoria critica», o anche come Scuola di Francoforte, i cui esponenti di spicco erano Max Horkheimer e Theodor W. Adorno. Il sodalizio è durato durato tutta la vita, carico di intime affinità ma anche di sensibilità assai diverse.
I principali libri che segnano le tappe dello sviluppo teorico marcusiano sono Ragione e rivoluzione (1954), Eros e civiltà (1955) L'uomo ad una dimensione (1964). Ad essi aggiungere i saggi raccolti in Cultura e società (1965). Stese in America, tradotte e diffuse in Europa a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, queste opere avrebbero influenzato (epidermicamente) la generazione del '68 ma forgiato il linguaggio dei suoi portaparola. È interessante notare che la principale produzione marcusiana precede l'esplosione e l'impatto con il ‘68. A voler essere precisi la connotazione cronologica ormai incorreggibile («il Sessantotto») non riproduce la vicenda tedesca in cui Marcuse è coinvolto che va retrodatata almeno di un paio d'anni. Marcuse infatti si espone pubblicamente in prima persona già nel maggio 1966 nella prima grande manifestazione giovanile e studentesca contro la guerra in Vietnam. Ma è l'anno successivo (1967) che segnala l'apice drammatico della protesta anche per le violenze che lo accompagnano. Nello stesso anno Marcuse scrive il suo libro mirato intenzionalmente al movimento cui non riparmia le critiche, La fine dell'utopia (1967) cui seguirà qualche anno dopo (1973) Controrivoluzione e rivolta (1973). Si tratta di scritti di intervento politico che non possono essere presi come espressione del pensiero marcusiano tout court.
Dico questo non per sminuire gli errori di valutazione e le ingenuità di Marcuse nei confronti del movimento al quale - ripeto - rivolge obiezioni precise, negandogli tra l'altro (anche se con incongruenza) la presunzione di rappresentare «il nuovo soggetto rivoluzionario», mettendolo in guardia dall'attivismo fine a se stesso e dall'uso gratuito della violenza. Ma non c'è dubbio che la diagnosi catastrofica del tardo-capitalismo, della «società affluente», presentata esclusivamente nei suoi tratti autoritari e repressivi, fascistizzata, diagnosi accompagnata dalla teoria dei «nuovi bisogni» emancipatori e quindi dall'invito alla «liberazione della nuova sensibilità» e dell'eros, dall'appello al «grande rifiuto» - contenevano un'infinità di equivoci. Non a caso Marcuse sarà costretto a rettificare alcune delle sue tesi più dirompenti sulla legittimità della violenza rivoluzionaria, esposte anni prima nel suo celebre saggio sulla «tolleranza repressiva» (1966). In esso giustificava «il diritto naturale» alla rivolta degli oppressi nelle società democratiche. Ma allora - ci si chiede oggi - se il rapporto con il movimento di protesta è ambiguo, se la diagnosi del tardo-capitalismo e della società liberal-democratica presentata come autoritaria e repressiva è sbagliata, se la teoria dei «nuovi bisogni» è equivoca - quale Marcuse merita di essere riletto?
Premesso che un autore può essere intellettualmente interessante, anche se rimane criticabile, il pensiero di Marcuse testimonia una corrente di pensiero che nel cuore del Novecento - dagli anni Trenta sino a tutti gli anni Sessanta - è stata estremamente significativa, lasciando una traccia profonda nella cultura tedesca (in parte in quella americana - non in Italia). È la «teoria critica» , una denominazione nel frattempo consolidata, anche se un po' generica e articolata in modo diverso nei diversi autori. È un approccio tra il filosofico e il sociologico caratterizzato innanzitutto da un atteggiamento fortemente polemico verso la società contemporanea (definita tardo-capitalistica), denunciata e smascherata nelle sue insuperabili contraddizioni sociali. La «teoria citica» ha fatto proprie le categorie analitiche marxiane più in profondità di quanto non le abbiano mai concesso i marxisti doc. Le grandi opere francofortesi dalla Dialettica dell'illuminismo a L'uomo ad una dimensione sono costruite sulle categorie «scambio-ratio-dominio» all'interno di un impianto che vuol essere originale per la ripresa di motivi hegeliani e frediani. Ma è originale soprattutto il suo stile argomentativo ed espressivo che si definisce dialettico.
In questa ottica un posto particolare ha sempre avuto la critica alla razionalità tecnologica. A questo proposito Marcuse (sulla scia di Adorno) ha coniato formule fulminanti («L'apriori tecnologico è un apriori politico») che hanno incantato i giovani di allora (senza che capissero che cosa volesse dire) e hanno fatto infuriare i filosofi sia analitici che di scuola più tradizionale. Senza lo stile argomentativo, affascinante ed ermetico ad un tempo, che nei passaggi cruciali tira fuori «la dialettica negativa», «il pensiero negativo», «l'utopia», «la ragione», «la verità» o la Kultur - non ci sarebbe la «teoria critica» in versione marcusiana o adorniana.
È facile oggi collocare questo modo di ragionare e di parlare in un cortocircuito tra utopia ed estetismo, tipico di un universo culturale e politico inconfrontabile con quello attuale. Sullo sfondo di temi odierni come «il declino dell'Occidente» «lo scontro di civiltà» , «la globalizzazione selvaggia», la «nostalgia dei valori» la diagnosi marcusiana sembra fuori dal mondo. Eppure certi motivi della sua critica alla razionalità tecnologica, ad esempio, rimangono ancora stimolanti. Il problema della razionalità della scienza e della tecnologia rimane una delle sfide concettuali e pratiche tuttora più impegnative.
Oggi citare Marcuse non è qualificante dal punto di vista accademico. Ma alcuni dei suoi saggi sono densi, ben radicati in una certa tradizione del pensiero europeo e intellettualmente più stimolanti di parecchi discorsi di filosofi-da-intrattenimento. Le teorie francofortesi e marcusiane mostrano limiti evidenti, ma sono tipiche di un orientamento europeo-occidentale «dialettico», rompere definitivamente con il quale sarebbe un errore. Non perdiamolo di vista.
GIAN ENRICO RUSCONI
Nato in Germania nel 1898, Herbert Marcuse aveva assorbito gli umori della Republica di Weimar, aveva conosciuto e ammirato Martin Heidegger; aveva militato nei movimenti di sinistra. Andato in esilio in America per ragioni razziali, ha mantenuto rapporti per tutta la vita con la Scuola di Francoforte, i cui esponenti di spicco erano Max Horkheimer e Theodor W. Adorno.
Se ne parlerà stamane al festival della Filosofia organizzato al Parco della Musica a Roma da Giacomo Marramao e Paolo Flores d'Arcais dedicato all'eredità del ‘68. Anticipiamo una parte della riflessione di Gian Enrico Rusconi Un ricercatore che oggi ricostruisse il ‘68 e dintorni nei suoi aspetti intellettuali, al di là del biografismo sentimentale degli ex-sessantottini, si imbatterebbe in un filosofo settantenne in un modo di giovani e giovanissimi - un filosofo nel frattempo quasi dimenticato, Herbert Marcuse. È sorprendente la distanza tra l'immensa fama goduta allora e l'indifferenza di oggi. Dopo l'infatuazione da parte giovanile, durata un paio d'anni, Marcuse si è trovato presto sotto l'attacco concentrico dei marxisti (di varia scuola ma allora tutti potenti e intimidenti) e la reazione dei tradizionalisti di destra (che l'hanno accusato di avere incubato il terrorismo). Abbandonato dal movimento di protesta studentesco, che si è dissolto tra mille contraddizioni, Marcuse guardato con diffidenza e gelosia dal ceto accademico, è deceduto nel 1979 lasciando un'eredità ancora da valutare seriamente.
Marcuse, chi era costui? Nato in Germania nel 1898 aveva assorbito profondamente tutti gli umori di quella irripetibile esperienza culturale e politica che fu la Republica di Weimar. Aveva conosciuto e ammirato (come tutti, del resto, a quel tempo) Martin Heidegger; aveva messo insieme ontologia heideggeriana e marxismo critico, militando nel contempo nei movimenti di sinistra. Andato in esilio in America per ragioni razziali, ha mantenuto e approfondito i contatti con quella singolare comunità di studiosi ebreo-tedeschi, che si sarebbe fatta conoscere poi come «teoria critica», o anche come Scuola di Francoforte, i cui esponenti di spicco erano Max Horkheimer e Theodor W. Adorno. Il sodalizio è durato durato tutta la vita, carico di intime affinità ma anche di sensibilità assai diverse.
I principali libri che segnano le tappe dello sviluppo teorico marcusiano sono Ragione e rivoluzione (1954), Eros e civiltà (1955) L'uomo ad una dimensione (1964). Ad essi aggiungere i saggi raccolti in Cultura e società (1965). Stese in America, tradotte e diffuse in Europa a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, queste opere avrebbero influenzato (epidermicamente) la generazione del '68 ma forgiato il linguaggio dei suoi portaparola. È interessante notare che la principale produzione marcusiana precede l'esplosione e l'impatto con il ‘68. A voler essere precisi la connotazione cronologica ormai incorreggibile («il Sessantotto») non riproduce la vicenda tedesca in cui Marcuse è coinvolto che va retrodatata almeno di un paio d'anni. Marcuse infatti si espone pubblicamente in prima persona già nel maggio 1966 nella prima grande manifestazione giovanile e studentesca contro la guerra in Vietnam. Ma è l'anno successivo (1967) che segnala l'apice drammatico della protesta anche per le violenze che lo accompagnano. Nello stesso anno Marcuse scrive il suo libro mirato intenzionalmente al movimento cui non riparmia le critiche, La fine dell'utopia (1967) cui seguirà qualche anno dopo (1973) Controrivoluzione e rivolta (1973). Si tratta di scritti di intervento politico che non possono essere presi come espressione del pensiero marcusiano tout court.
Dico questo non per sminuire gli errori di valutazione e le ingenuità di Marcuse nei confronti del movimento al quale - ripeto - rivolge obiezioni precise, negandogli tra l'altro (anche se con incongruenza) la presunzione di rappresentare «il nuovo soggetto rivoluzionario», mettendolo in guardia dall'attivismo fine a se stesso e dall'uso gratuito della violenza. Ma non c'è dubbio che la diagnosi catastrofica del tardo-capitalismo, della «società affluente», presentata esclusivamente nei suoi tratti autoritari e repressivi, fascistizzata, diagnosi accompagnata dalla teoria dei «nuovi bisogni» emancipatori e quindi dall'invito alla «liberazione della nuova sensibilità» e dell'eros, dall'appello al «grande rifiuto» - contenevano un'infinità di equivoci. Non a caso Marcuse sarà costretto a rettificare alcune delle sue tesi più dirompenti sulla legittimità della violenza rivoluzionaria, esposte anni prima nel suo celebre saggio sulla «tolleranza repressiva» (1966). In esso giustificava «il diritto naturale» alla rivolta degli oppressi nelle società democratiche. Ma allora - ci si chiede oggi - se il rapporto con il movimento di protesta è ambiguo, se la diagnosi del tardo-capitalismo e della società liberal-democratica presentata come autoritaria e repressiva è sbagliata, se la teoria dei «nuovi bisogni» è equivoca - quale Marcuse merita di essere riletto?
Premesso che un autore può essere intellettualmente interessante, anche se rimane criticabile, il pensiero di Marcuse testimonia una corrente di pensiero che nel cuore del Novecento - dagli anni Trenta sino a tutti gli anni Sessanta - è stata estremamente significativa, lasciando una traccia profonda nella cultura tedesca (in parte in quella americana - non in Italia). È la «teoria critica» , una denominazione nel frattempo consolidata, anche se un po' generica e articolata in modo diverso nei diversi autori. È un approccio tra il filosofico e il sociologico caratterizzato innanzitutto da un atteggiamento fortemente polemico verso la società contemporanea (definita tardo-capitalistica), denunciata e smascherata nelle sue insuperabili contraddizioni sociali. La «teoria citica» ha fatto proprie le categorie analitiche marxiane più in profondità di quanto non le abbiano mai concesso i marxisti doc. Le grandi opere francofortesi dalla Dialettica dell'illuminismo a L'uomo ad una dimensione sono costruite sulle categorie «scambio-ratio-dominio» all'interno di un impianto che vuol essere originale per la ripresa di motivi hegeliani e frediani. Ma è originale soprattutto il suo stile argomentativo ed espressivo che si definisce dialettico.
In questa ottica un posto particolare ha sempre avuto la critica alla razionalità tecnologica. A questo proposito Marcuse (sulla scia di Adorno) ha coniato formule fulminanti («L'apriori tecnologico è un apriori politico») che hanno incantato i giovani di allora (senza che capissero che cosa volesse dire) e hanno fatto infuriare i filosofi sia analitici che di scuola più tradizionale. Senza lo stile argomentativo, affascinante ed ermetico ad un tempo, che nei passaggi cruciali tira fuori «la dialettica negativa», «il pensiero negativo», «l'utopia», «la ragione», «la verità» o la Kultur - non ci sarebbe la «teoria critica» in versione marcusiana o adorniana.
È facile oggi collocare questo modo di ragionare e di parlare in un cortocircuito tra utopia ed estetismo, tipico di un universo culturale e politico inconfrontabile con quello attuale. Sullo sfondo di temi odierni come «il declino dell'Occidente» «lo scontro di civiltà» , «la globalizzazione selvaggia», la «nostalgia dei valori» la diagnosi marcusiana sembra fuori dal mondo. Eppure certi motivi della sua critica alla razionalità tecnologica, ad esempio, rimangono ancora stimolanti. Il problema della razionalità della scienza e della tecnologia rimane una delle sfide concettuali e pratiche tuttora più impegnative.
Oggi citare Marcuse non è qualificante dal punto di vista accademico. Ma alcuni dei suoi saggi sono densi, ben radicati in una certa tradizione del pensiero europeo e intellettualmente più stimolanti di parecchi discorsi di filosofi-da-intrattenimento. Le teorie francofortesi e marcusiane mostrano limiti evidenti, ma sono tipiche di un orientamento europeo-occidentale «dialettico», rompere definitivamente con il quale sarebbe un errore. Non perdiamolo di vista.
1 commento:
Perche non:)
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