Di fronte al trionfo dell'antipolitica, non fermiamoci alla condanna della 'casta'
Clima insopportabile, trionfo dell’antipolitica, crisi del sistema della rappresentanza: tutto ad un tratto ci si è accorti di un fenomeno i cui prodromi erano evidenti ormai da anni e che prende origine dalla incapacità della politica italiana di portare a termine un organico processo di riforma delle proprie istituzioni. Sono passate invano stagioni di indignazione popolare e di mobilitazione delle piazze – culminate in Tangentopoli – e spossanti ricerche di larghe intese tra le forze politiche per dare un nuovo assetto alla Costituzione e alle leggi chiave per la partecipazione ed il controllo democratico – si pensi alla Bicamerale e alle riforme costituzionali “di parte” approvate negli scorsi anni. Tutto questo non ha prodotto quella discontinuità di cui il Paese aveva bisogno, non ha innalzato né il livello della partecipazione, né la qualità e la moralità dell’agire politico.
Oggi chi, come le Acli, è stato protagonista critico di quella stagione potrebbe cantar vittoria segnalando la propria lungimiranza. Ma a che gioverebbe? Così come assai poco aiuterebbe il Paese accodarci anche noi nella condanna della “casta”, della “oligarchia di insaziabili bramini”, per usare le espressioni di Gian Antonio Stella, con il rischio di andare a buttare il bambino con l’acqua sporca, cioè le istituzioni del Paese insieme all’attuale classe dirigente. Il nostro atteggiamento deve avere al centro un rinnovato impegno per il bene comune, una forte tensione ideale ed anche un elemento un po’ desueto in politica, la speranza, cioè la consapevolezza che qualcosa ancora si può fare.
Qual è l’elemento sul quale fare perno nel generale sfaldamento del quadro sociale e politico? Qualcuno lo identifica in un nuovo partito politico, capace di avviare un processo di scomposizione e ricomposizione delle culture politiche e dei gruppi dirigenti; altri, in un referendum, nuovo momento di partecipazione diretta dei cittadini e di riappropriazione dei diritti di rappresentanza scippati dalla perversa legge elettorale di Calderoli; altri ancora, in una riforma elettorale che superi l’attuale bipolarismo imperfetto e arrogante. Tante strade che valutiamo positivamente, ma nessuna delle quali, da sola, ci convince appieno.
Crediamo, infatti, che contenitori, strumenti e regole siano assai utili per fare politica, ma vada in primo luogo ritrovata la partecipazione. Senza il contributo dei cittadini, senza un dialogo costante con i territori non vi è ceto politico che non sia condannato a divenire casta. Bisogna riannodare un filo che si è spezzato: dalle città ai comuni, dalla società civile alle università deve essere ritessuta una rete di partecipazione, capace di portare nuove idee e nuovi protagonisti. Nonostante il pessimismo dilagante esistono in Italia tantissimi cittadini impegnati ed intelligenti, preparati e non disponibili a vendersi a scapito delle proprie idee. E laddove non ci sono ancora le competenze, ma solo le qualità, vi è spazio per la formazione, il sostegno, l’accompagnamento.
Partiamo da qui, non vi è scorciatoia credibile.
Andrea Olivero
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