La brutta riforma costituzionale che domenica giudicheremo non nasce dal nulla o solo da una estemporanea ed improvvida decisione estiva (baita di lorenzago) della CDL. Nasce e si alimenta in una idea della politica e anche della vita quotidiana che fa confliggere efficienza e democrazia. Peraltro con quello stile primitivo e grossier che purtroppo leggiamo spesso nelle intercettazioni dei potenti di turno.
Il caso è già studiato.
Da alcuni anni Giuseppe De Rita rileva che “gli anni Novanta sono stati segnati da una dinamica politica pervasa da opzioni diverse ma tutte disattente al problema del riassetto complessivo del nostro sistema istituzionale e incentrata su tre scelte correlate fra di loro: la scelta del primato della decisionalità; la scelta della concentrazione e verticalizzazione del potere; la scelta della personalizzazione delle decisioni e del potere”. La prima “talvolta corrivamente scivolata nel più arrogante decisionismo ... ha squilibrato ... il necessario equilibrio fra decisionalità e rappresentanza”, determinando “la pratica inutilità odierna dei consigli comunali, provinciali e regionali, veri e propri fantasmi istituzionali senza ruolo” ridotti “a mere comparse dell’attività e dell’attivismo personale del sindaco, del presidente della provincia, del presidente ... della regione”.
Ne è derivato – e si passa così alla seconda scelta – lo “spostamento delle decisioni in ambiti sempre più ristretti di potere; [la] tendenza a cercare o imporre leader anche improbabili in ristrette cerchie di interesse e d’opinione; [la] coltivazione del mito del capo, necessario e spesso mitico delle istituzioni”. Polemizzando con chi afferma “che è proprio il carattere di proliferazione molecolare della nostra società che impone come sua singola unificazione possibile il presidenzialismo al vertice”, si fa notare che questa ipotesi è “intimamente vecchia, in quanto risente ancora dell’antica concezione piramidale del potere, con un «faraone» che opera sul fluire della domanda e della risposta decisionale lungo dinamiche squisitamente gerarchiche”.
Quanto infine alla terza scelta – strettamente correlata alle prime due – De Rita parla di “ricerca regressiva di decisionalità e di «capi»” in chiave, aggiungerei, più d’incarnazione di tipo populista, che di rappresentanza liberaldemocratica, tale dunque da non richiamarsi alla statemanship e cioè al “peso del valore personale dei leader che ha sempre connotato la politica e lo Stato”, ma a “un più pesante e ambiguo fenomeno di identificazione della politica con figure e vicende squisitamente personali”: se la rappresentanza “ha bisogno di un paziente lavoro collettivo, il decisionismo ha bisogno di uomini che sappiano «impersonarlo»; se la partecipazione ha bisogno di canali e di dinamiche di tipo collettivo, la verticalizzazione del potere ha bisogno di uomini che siano o almeno appaiano straordinari leader maximi”.
Tutto ciò condito da una straordinaria "mediatizzazione" che ad alcuni fa risultare insostituibili o addirittura simpatici gli uomini del destino.
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