A Montgomery, Alabama, in una piccola chiesa battista, ascoltai il sermone più straordinario che avessi mai ascoltato: l’argomento era il libro dell’Esodo e la lotta politica dei neri del sud. Dal suo pulpito il predicatore mimò l’uscita dall’Egitto e ne espose le analogie col presente; piegò la schiena sotto la frusta, sfidò il Faraone, esitò timoroso davanti al mare, accettò l’alleanza e la legge ai piedi della montagna (M. Walzer, Esodo e rivoluzione).
Gli umanesimi che si sono mostrati capaci di futuro, sono fioriti grazie a rapporti non predatori con il tempo e con la terra. Il tempo e la terra non li produciamo; li possiamo solo ricevere, custodire, accudire, gestire, come dono e promessa. E quando non lo facciamo, perché usiamo tempo e terra a scopo di lucro, l’orizzonte futuro di tutti si annuvola e si accorcia. L’umanesimo biblico aveva tradotto questa dimensione di radicale gratuità del tempo e della terra con la grande legge del sabato e del giubileo, con la cultura del maggese: (Esodo 23,10-12).
Non siamo noi i padroni del mondo. Lo abitiamo, ci ama, ci nutre e ci fa vivere, ma siamo suoi ospiti e pellegrini, abitanti e possessori di una terra tutta nostra e tutta straniera, dove ci sentiamo a casa e viandanti. La terra è sempre terra promessa, mèta di fronte a noi e mai raggiunta. E lo è anche la terra su cui abbiamo costruito la nostra casa, quella del nostro quartiere, quella dove cresce il grano del nostro campo.
Alle radici della cultura biblica del maggese non c’è solo una tecnica saggia e sostenibile di coltivazione della terra. Nell’Esodo il maggese lo troviamo assieme al sabato e al giubileo, ed è quindi espressione di una legge più profonda e generale che riguarda la natura, il tempo, gli animali, le relazioni sociali, è profezia radicale di fraternità umana e cosmica. Puoi usare la terra sei giorni, non il settimo; puoi farti servire dal lavoro di altri uomini per sei giorni, non il settimo. Puoi e devi lavorare, ma non sempre, perché sempre lavoravamo quando eravamo schiavi in Egitto. L’animale domestico lavora sei giorni per te, ma il settimo non è per te. Il forestiero non è forestiero tutti i giorni, nel settimo è persona di casa con e come tutti. C’è una parte della tua terra e della tua “roba” che non è tua, e che devi lasciare all’animale selvatico, allo straniero, al povero. Ciò che hai non è tutto e soltanto per te. Appartiene anche all’altro da te, che non è mai così “altro” da uscire dall’orizzonte del ‘noi’. Tutti i veri beni sono beni comuni.
Ma se sulle cose e sulle relazioni umane c’è impresso uno stigma di gratuità, allora ogni proprietà è imperfetta, ogni dominio è secondo, nessun straniero è veramente e soltanto straniero, nessun povero è povero per sempre. Il cristianesimo ha, profeticamente, mandato in crisi la “lettera” della legge del sabato, ma non per ridurre il settimo giorno agli altri sei. Nel “regno dei cieli”, dove i poveri sono chiamati felici e i servi amici, i primi sei giorni sono chiamati a convertirsi alla profezia di gratuità e di fraternità universale racchiusa nell’ultimo.
La legge del settimo giorno ci dice allora che gli animali, la terra, la natura non hanno valore solo in rapporto a noi umani, valgono anche in se stessi. La terra e il lago vanno rispettati, e quindi lasciati riposare liberi dal nostro imperio e dal nostro istinto acquisitivo, non solo perché i loro frutti saranno per noi più sani e buoni: vanno rispettatati per il loro valore intrinseco e per la loro dignità, che dovremmo riconoscere e non oltraggiare anche quando una terra non è messa a cultura, e quando in un lago non c’è nessun pesce da pescare. Perché i campi, i laghi, i boschi sono creazione e dono, come lo siamo noi umani, gli animali, il mondo. È la fraternità della terra la legge che ispira il maggese, il sabato, il giubileo.
La diversità radicale del settimo giorno ci ricorda, poi, che le leggi dei sei giorni, quelle delle asimmetrie e delle diseguaglianze, non sono né le uniche né le più vere, perché il settimo giorno è il giudizio sulla giustizia e sull’umanità degli altri sei. Il grado di umanità e di civiltà vera di ogni società concreta si misura sulla base dello scarto tra il sesto e il settimo giorno. L’ultimo giorno diventa allora la prospettiva da cui guardare e giudicare gli altri sei, la loro qualità etica, spirituale, umana. Quando manca il settimo giorno, il lavoro diventa schiavitù per chi lavora, servitù e assenza di respiro per la terra e per gli animali; il forestiero non diventa mai fratello, il povero solo scarto e mai redenzione di sé e della città. Gli imperi hanno sempre tentato di eliminare l’idea stessa del settimo giorno e l’utopia concreta in esso contenuta, pensando così di eliminare il giudizio sulle ingiustizie da loro perpetrate nel sesto – è bello pensare che mentre i sacerdoti ebrei scrivevano il libro dell’Esodo, o almeno alcuni brani di esso, si trovavano schiavi in Babilonia, senza sabato. Per questo lo amavano e lo desideravano come grande speranza e promessa di libertà da tutti gli idoli e da tutti gli imperi, e come giudizio sul loro tempo: la profezia di un “giorno” diverso è sempre rinata nelle sofferenze e nelle schiavitù, e può rinascere ancora.
Finché salviamo la profezia del settimo giorno teniamo viva la speranza degli umili e degli oppressi e di tutti coloro che non si accontentano delle schiavitù e delle umiliazioni dei sei giorni della storia. E diciamo che vogliamo che quelle ingiustizie non siano per sempre.
La legge del settimo giorno interpella tutte le dimensioni della vita. Come singole persone ci invita a non consumarci e non possederci fino in fondo, a lasciare spazio nella nostra anima non occupato dai nostri progetti, perché vi possano fiorire semi che non sappiamo di ospitare. Senza questa dimensione di gratuità e di rispetto del mistero che siamo, alla vita manca quello spazio di libertà e generosità dove vive l’humus spirituale che fa maturare il “già” nel “non-ancora”. È il luogo intimo e prezioso della generatività più feconda. È lì, nella terra libera perché non “messa a reddito” per noi, dove ci raggiungono le grandi sorprese della vita che la cambiano per sempre, dove nasce la creatività vera. È dal quel pezzo di terra incolta e non sfruttata del giardino che riusciamo a vedere la linea più alta dell’orizzonte tra cielo e terra, dove i nostri occhi malati di infinito si distendono e trovano finalmente riposo.
Ma la logica del maggese (da maggio, il mese in cui nel mondo romano si lasciavano riposare i campi) dice cose importanti anche alle comunità e alle istituzioni. Una comunità senza maggese non ha tempo per la festa, non è accogliente, si impossessa delle persone e dei beni, non conosce la fraternità, e quindi non vi si sente il soffio del “respiro” dello spirito. Dove, invece, è presente i suoi indicatori sono chiari e forti: le gerarchie e il potere durano solo sei giorni, la gratuità della festa e l’efficienza del lavoro hanno la stessa dignità. I bambini e i poveri si sentono sempre a casa, perché ci sono zone della case non occupate e lasciate libere per loro.
La cultura del maggese non è la cultura del capitalismo che sperimentiamo, che per la sua natura idolatrica vive di un culto perenne e totale, che ha bisogno di consumatori-lavoratori sette giorni su sette: (23,13). E così una grande indigenza della nostra generazione, forse la più grande, è la morte del settimo giorno, che è stato fatto scomparire dal nostro codice simbolico collettivo. Perché il valore del settimo giorno non è solo un settimo del totale: è lievito e sale di tutti gli altri, che senza di esso restano sempre e tutti azzimi e sciapi. È soltanto il non-giogo del settimo giorno che rende sostenibili, persino leggeri e soavi, i gioghi di tutti gli altri.
Ci siamo lasciati rubare il settimo giorno, lo abbiamo barattato con la cultura del week-end (dove i poveri sono ancora più poveri, gli animali ancora più soggiogati, gli stranieri ancora più stranieri). E la notte del settimo giorno sta inesorabilmente abbuiando gli altri sei. La terra non respira più, e a noi manca la sua aria. Abbiamo il dovere di ridonarle e ridonarci respiro, di ridonarlo ai nostri figli che hanno diritto a vivere in un mondo con un giorno diverso in più, a rifare l’esperienza del dono del tempo e della terra.
Ma possiamo ancora sperare. La profezia del settimo giorno non è morta, la Bibbia l’ha custodita per noi. Con essa ha custodito il suo giudizio sui nostri sei giorni diventati sette tutti identici, e ha conservato, sempre per noi, la sua promessa. La parola è viva, genera e ci rigenera sempre. Ci ridona tempo e terra, ci allarga gli orizzonti, ci fa sentire e vedere cieli più limpidi: (24,9-11).
Avvenire 16/11/2014
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