L'intervento di Giovanni Bianchi alla manifestazione per il 25 aprile a Milano
Cari milanesi,
ci ritroviamo anche quest'anno in questa piazza il 25 aprile consapevoli che l'Italia di oggi è certamente lontana da quella che sognarono i partigiani 68 anni fa. Anzi, proprio questa distanza, misurata dalla crisi economico-finanziaria, con 3 milioni di disoccupati e il 35,3% dei giovani senza lavoro, impedisce il rischio di una celebrazione rituale. Ci ha spinti qui il bisogno di un progetto e di una speranza ritrovati, di raccoglierci intorno a un'etica di cittadinanza che diventi il riferimento comune, perché capace di opporsi al crescere di disuguaglianze ormai insopportabili. C'è un bisogno di riferimenti, di maestri credibili, di certezze sulle quali fondare la speranza di un futuro per tutti. Questo bisogno ha le sue radici nella Lotta di Liberazione.
Si tratta di una domanda ancora una volta rivolta alla politica. Anche se troppe volte questa politica appare agli occhi dei nostri concittadini non più soltanto una cosa sporca, ma addirittura una cosa inutile. È tuttavia alla politica che viene chiesto di occuparsi di situazioni apparentemente impossibili. In fondo i nostri concittadini sanno benissimo che non si riuscirebbe a realizzare quel poco che già oggi è possibile se non si ritentasse ogni volta l'impossibile. Il Paese fatica, soffre, si arrabbia, vota con rabbia, e tuttavia non cessa di cercare una via d'uscita e di sperare di trovarla concretamente.
Questo è il Paese che ha saputo uscire unito dagli anni di piombo. Il Paese dove le smanie di secessione delle piccole patrie si sono trasformate in istituzioni (sono parole del Presidente della Repubblica) "portatrici di una visione non accentratrice dello Stato, già presente nel Risorgimento e da perseguire finalmente con serietà e coerenza". Questo è il Paese che ha salvaguardato la democrazia dopo l'assassinio di Aldo Moro. E tutto questo conduce a interrogarci su quale sia il sentimento comune che nei passaggi più difficili ci tiene tuttavia insieme e riesce a capitalizzare le nostre energie insieme alle nostre differenze.
Questo riferimento comune – sopravvissuto allo scontro e alla morte delle ideologie – è la Carta costituzionale del 1948; quella Carta che Piero Calamandrei giudicava nient'altro che la Resistenza messa in norme giuridiche. Fu Dossetti a porsi il 9 settembre del 1946 nella Seconda Sottocommissione della Costituente la domanda cruciale: come faremo noi che siamo così diversi per cultura e convinzioni a scrivere insieme la Carta di tutti gli italiani? E la risposta fu altrettanto franca: soltanto assumendo come visione comune l'antifascismo o almeno l’a-fascismo. Perché se il fascismo è il prevalere dello Stato rispetto alla persona, noi stabiliamo insieme che il nostro antifascismo prevede il prevalere della persona rispetto allo Stato. L'ordine del giorno che racchiudeva questa chiave di interpretazione passò all'unanimità, cosa tutt'altro che normale durante i lavori alla Costituente. È dunque da quel giorno che la nuova Italia ha a disposizione un fondamento repubblicano comune. Una costituzione fondata esplicitamente sulla Lotta di Liberazione. Che fu fatto di popolo, guidato da minoranze attive che combattevano in montagna e che vide la partecipazione diffusa di chi operava nelle città per cambiare le coscienze.
Perché il fascismo fu una grande macchina di consenso, e il suo abbattimento non poteva limitarsi alle sconfitte inflittegli sui campi di battaglia. Non si capirebbero altrimenti nella loro radice gli scioperi del marzo 1943, di cui ricorre il 70º anniversario, che videro battersi i lavoratori delle grandi fabbriche del Nord, primi in Europa a sollevarsi contro la dittatura.
Non è dunque casuale che i principi fondamentali della Carta costituzionale partano con l’incipit: l'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Lavoro e futuro sono infatti la coppia spezzata dalla crisi, mentre il secolo alle spalle aveva visto procedere il lavoro come macchina di futuro e di speranza, di cittadinanza quotidiana e collettiva. A scavalco dall'oceano. Il lavoro come fondamento e il lavoro come orizzonte. Il lavoro è infatti il grande ordinatore sociale, prima e talvolta più della legge. Lo dicono le migrazioni interne, l'emigrazione italiana e l'immigrazione in Italia.
L'emigrazione italiana non deve dimenticare Charleroi e Marcinelle: quelle tragedie narrano lo scambio di uomini contro sacchi di carbone scontati in un'Italia tesa nel massimo sforzo per ricostruirsi. Così pure l'immigrazione non deve dimenticare Jerry Masslo, ucciso da un gruppo di giovani balordi a Villa Literno, nel cuore delle campagne dove si raccoglie l'oro rosso dei pomodori sotto il dominio del caporalato. Nell'appello dei suoi compagni di lavoro col quale fu indetto il primo sciopero dei lavoratori stranieri in Italia il 20 settembre 1989 possiamo leggere all'indirizzo dei lavoratori italiani: "Non siamo disposti ad essere strumento per fare arretrare i vostri diritti"...
E se come è stato ben scritto, la Costituzione ringiovanisce vivendola, anche la Lotta di Liberazione che l'ha prodotta ringiovanisce nelle relazioni dei cittadini che insieme riscoprono le ragioni del proprio stare insieme e del lavorare a un orizzonte di pace e bene comune. E qui l'ultima perla: quel verbo sorprendente, "l'Italia ripudia la guerra", ammirato e invidiatoci dalla coscienza internazionale. Questa è la verità di questo 25 aprile. E questo l'idem sentire che ci rende orgogliosi di continuare a chiamarci italiani ed europei.
Viva la Resistenza e viva la Costituzione!
di Giovanni Bianchi, presidente dell'Associazione nazionale dei partigiani cristiani
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