lunedì, settembre 17, 2012

Racconti di un'epoca ricordando Carlo Luciano di Antonio De Lucia


di Antonio De Lucia 
pubblicato su MESSAGGIO d'oggi n. 27/28, Anno LII, 1/20 settembre 2012 

Carlo (Carletto e, in beneventano, Carlèèèè … con la “e” ad eco) Luciano, se lo avesse voluto, avrebbe potuto vantarsi per il numero di amici conquistati in 57 anni. Io l'ho conosciuto al Liceo “Giannone”, ai tempi del '68 o giù di lì: pur iscritti in Sezioni diverse, ci frequentavamo quasi tutti i giorni. La società italiana allora stava cambiando, in modo tumultuoso per prendere infine una deriva tragica: anche quella beneventana si trasformava. I giovani, che al tempo erano una categoria dello spirito più che una stagione anagrafica, uscivano d'impeto dalle proprie case - “prigioni” per ritrovarsi, riunirsi, discutere, stare insieme. Crescere. Il nostro ritrovo era il Viale degli Atlantici e, ovviamente, “Mainella”. La politica, con le sue passioni ed il corredo (in quei tempi, soprattutto) di ideologie perniciose, era alla base dello tsunami che scuoteva l'Occidente; la musica il collante dei ragazzi del '68 e post '68. Musica ascoltata ovunque e comunque, proveniente dagli States, dall'Inghilterra e dall'Italia (la ballata contro la guerra in Vietnam, “Cera un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones”, la scrisse Mauro Lusini e poi la cantò Joan Baez). Poiché né io né Carlo avevamo i soldi per i supporti (cioé: lo stereo e, soprattutto, i dischi) capaci di placare la fame di autori di rock, di pop, di jazz che ci assaliva, ci dovevamo arrangiare. Per esempio, registravamo, con il mio “Geloso” a bobina, “Per voi giovani”, mitica trasmissione radiofonica di Carlo Massarini e Raffaele Cascone; oppure elemosinavamo l'ascolto da chi aveva il necessario (come il leggendario stereo di “Selezione del Reader's digest”). Carlo partecipava a scherzi, goliardate e bravate architettate per contestare la sclerotica società beneventana; ma, pur ridendo a crepapelle e sciorinando battute, sembrava, comunque masticare amaro: si vedeva che in lui, come dire?, restava in bocca un retrogusto spiacevole. Mi chiedevo il perché fino a che seppi che, di fatto, non aveva mai conosciuto il padre, scomparso prematuramente. Ora, da un lato, in quel tempo, la figura paterna serviva a catalizzare tutte le incazzature giovanili antisistema: questa funzione, che esasperava il classico conflitto genitori/figli, rendeva la vita in famiglia un inferno; d'altro canto, anche litigare con il “matusa” serviva ad affermare la propria indipendenza. Carlo, da un lato, soffriva quel vuoto in casa (un'atmosfera come “Quella carezza della sera ...” dei New Trolls), che la sua immensa (anche non in senso figurato) mamma non poteva riempire; ma, nel contempo, aveva imparato, prima di noi, a cavarsela da solo in tutta una serie di circostanze: era come se fosse già “maturo” – ancor prima di conseguire la “Maturità” e così, talvolta, ci compativa per la nostra ingenuità o inesperienza. Carlo aveva fede: credeva in Dio e nel Partito Comunista Italiano. Parafrasando Gino Paoli, facendo bene i conti aveva due convinzioni più di me: in questo, dunque, non riuscivo a seguirlo né lo capivo, ma era bello con lui, secondo gli usi di allora, dopo inconcludenti discussioni sui massimi sistemi (“ma Tex Willer non è che sia un agente della Cia al servizio dell'imperialismo americano?...”), riprendere ad ascoltare Dylan, Who, Pink Floyd, Charlie Parker e i (suoi amatissimi) Chicago. Poi venne il tempo dell'Università: lui mi propose di studiare insieme. Una delle caratteristiche del suo carattere era l'intraprendenza, unita alla capacità di promuovere incontri e stringere amicizie. A prescindere, sempre. Con persone di ogni età e condizione, saltava di botto le difficoltà di approccio. Sapeva parlare con gli anziani (un'impresa, a quei tempi), e, ovviamente, con i giovani. Per quattro anni ci siamo visti tutti i giorni per l'intera giornata, affrontando di petto tre gravi incombenze: 1) le ragazze; 2) l'ascolto della musica; 3) il viaggio di andata e ritorno per la Federico II con la “Ferrovia di cartone”, tra “treni fantasma”, che viaggiavano da soli o che si fermavano sulla salita di Arpaia, o che bisogna spingere o in ritardo anche di quattro ore per percorrere settanta chilometri. Poi in casa viaggiavamo tra pagine di storia, di filosofia, di letteratura. Una volta mi venne di chiedergli una cosa: “Carlèèèè, ma ha un senso questo nostro peregrinare tra teorie, eventi storici, versi latini, teorie del romanzo? Ha un senso questo viaggio da un punto ignoto verso un altro anch'esso inconoscibile?”. Lui una risposta me la diede. In quel tempo il vero “nemico” era dentro l'Università. Nei “compagni” più a sinistra e più marxisti di te che ti davano del “fascista” perché non eri maoista; nei fascisti per i quali eri comunque un nemico; e nei libri. Alcuni autori (poi definiti “cattivi maestri”) pretendevano di piegare storia e storie, idee e libri alla ideologia dominante in quel momento, per cui, ad esempio, finivano con l'incolpare Giovanni Verga, grande autore, borghese ottocentesco, di non essere “marxista” e di non aver mosso un dito per la rivoluzione. Erano i tempi della “Cina è vicina”: io e Carlo non sopportavamo quelle aberrazioni. A suo onore va detto che, pur essendo graniticamente un “compagno”, non rinunciò mai al buon senso e all'amore per la libertà, contestando parola per parola le apologie e le fumisterie di mondi di “progresso” inesistenti. Per lui il comunismo era una speranza, non una realtà: ricordo le sue condanne delle stragi staliniste dei “kulaki” di cui era perfettamente consapevole, mentre molti nel PCI dicevano di non saperne alcunchè. Fu, per me, un periodo splendido, quello, di quotidiano confronto di idee. In termini più folcloristici e veritieri le nostre riserve sulle interpretazioni di quei libri le consegnavamo alla storia scrivendo frasi non ripetibili sulle loro stesse pagine bianche; poi andavamo a rivendere i volumi per guadagnare qualcosina e lo facevamo con il cuore in gola, sperando che i librai di Mezzocannone non andassero a spulciare le pagine compromesse. Ammiravamo però la “Storia d'Europa”, scritta senza alcun ausilio di appunti e testi, in isolamento in carcere tra il 1916 e il 1918, dal belga Henri Pirenne, prigioniero civile di guerra dei tedeschi: un viaggio incredibile, il suo, tra secoli di storia, di guerre, di Trattati internazionali, di alleanze ondivaghe di cui noi non riuscivamo a tenere a mente un solo rigo dopo averlo letto. Naturalmente Carlo, sostenuto l'esame, perse il prezioso volume e non riuscì più a ritrovarlo. Significativi, di quel periodo, erano sia i nostri esperimenti scientifici su fondamentali quesiti (ad esempio: quanto vino riesce ad assumere un uomo a pranzo o a cena?), sia la passione che animava Carlo quale corrispondente de “l'Unità” e di “Paese sera”. Scriveva benissimo: asciutto e chiaro; concreto e preciso. Ma, naturalmente, faceva dei casini incredibili con il “fuori sacco”, cioé la notizia dell'ultima ora: a quel tempo, senza Internet e posta elettronica, bisognava portare il “pezzo”, chiuso nel plico su carta intestata del giornale, all'Ufficio postale alla Stazione ferroviaria entro le 20.10 (mi pare) perché l'efficiente servizio postale dell'epoca (checchè se ne possa pensare...) lo recapitasse alla Redazione a Napoli nel giro di un paio d'ore, in tempo per apparire sul giornale del giorno dopo. Carlo era puntualmente in ritardo con le 20.10: da qui le nostre corse affannose (non avevamo la macchina) per la consegna del “fuori sacco” (del resto, qualcuno ha detto che per fare un buon giornalista ci vuol un buon paio di scarpe). La “naia” infine ci divise per dieci anni e non so il perché. Non abbiamo mai litigato, io e Carlo (nemmeno quando mi perse il libro di Pirenne); non ci divise nemmeno il vizio del fumo, che io persi subito, a 18 anni, mentre lui continuava ad appestare tutto con sigarette e cicche – facendomi incazzare. Me lo ritrovai d'improvviso vicino, tempo dopo, in un'occasione terribile per me e mia moglie, un evento che, con tutto l'impegno, uno non riesce ad augurare al suo miglior nemico. La sua solidarietà fu di conforto: del resto, con gli anni, Carlo aveva migliorato alcune sue qualità. La generosità, su tutte. Attenzione: non sto dicendo che Carlo era un santo; sto solo dicendo che, se ce ne fossero di più uguali a lui, questa città e questo Paese starebbero meglio. Non è da tutti, tanto per dirne una, imbarcare di punto in bianco in un camioncino viveri, medicinali e altro e partire in soccorso ai civili bosniaci ai tempi delle “pulizie etniche” – come fece Carlo, ovviamente tenendo il tutto sottotraccia. E poi, allo stesso modo, egli si legava alle persone - senza darlo a vedere. Non solo stringeva rapporti con chi la pensava come lui (il che già non è semplice), ma riusciva a fare da interfaccia tra chi aveva sensibilità e inclinazioni diverse. Di conseguenza casa sua era un porto di mare con gente che andava e veniva o per delibare vini oppure per chiacchierare di politica, di società, di costume, di sport o di cazzate varie. Carlo era sempre impegnato per la città e il Sannio per far sì che crescessero culturalmente, civilmente ed economicamente. Me lo fece notare qualche tempo fa, ammiccando, quando mi regalò il CD “Volunteers”dei Jefferson Airplan con la splendida (non solo per la voce) Grace Slick, nostro amore impossibile giovanile. Il lavoro di Carlo per la collettività, prima da giornalista e poi da comunicatore, era fatto con rigore, non scevro di arguzia, come quella sfoggiata in un Comunicato quando denunciò l'eroico sforzo di un candidato ad un turno di Elezioni capace di portare generi di “conforto” ai seggi con tanto di stemma politico. La vita di Carlo procedeva su questa rotta quando, a gennaio 2011, gli fu diagnosticato un cancro. Lui ha voluto combatterlo a viso aperto, con coraggio e dignità, senza piangersi addosso, a schiena diritta. Da uomo: nella consapevolezza del valore supremo dell'intelligenza contro lo sconforto. Per un'atroce beffa del destino, il cancro gli ha progressivamente tolto la facoltà di parlare, punendo con l'afasia chi aveva tanto da dire. Forse il ricordo più bello di Carlo risale a 3 anni fa, in vacanza con le nostre famiglie a Castro (Le): senza esserci dato appuntamento, ci ritrovammo io e lui, da soli, sulla scogliera ancor prima dell'aurora ad attendere l'arrivo del sole da dietro le rocce della “Zinzulusa” che si tuffano nell'Adriatico per uno spettacolo che si ripete da pochi miliardi di anni, ma che resta di sconvolgente, inenarrabile bellezza. A parte il saluto, non ci scambiammo una sola parola in quell'ora insieme: del resto, cosa c'è da dire difronte al sole che nasce, perduti nelle nostre riflessioni sul peregrinare del Tutto nell'Universo? 

*** Caro Carlo, pochi giorni fa te ne sei andato e così - come scrisse Lord Byron - “or non andremo più vagando, nella notte fonda”. In tanti ti hanno reso l'estremo omaggio nella tua Chiesa ed hanno pregato, invocando per te la misericordia di Dio; io posso solo dedicarti quella che, per me, è una preghiera laica di un poeta, il quale, quando eravamo ragazzi, ci insegnò che, rispetto a molte domande, “la risposta soffia nel vento”. La preghiera, lo ricorderai, noi la ascoltavamo in piedi e “sugli attenti” all'uso militare, per commozione e rispetto verso l'autore. I versi recitano: “I see my light come shining / from the west unto the east / any day, now, any day, now / I shall be released”; “Vedo la mia luce cominciare a brillare / da ovest verso est / un giorno o l'altro, adesso, uno giorno l'altro, adesso / io sarò liberato”.

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