sabato, giugno 04, 2011

Svimez: dati allarmanti sul Mezzogiorno a 150 anni dall’unità


Un volume sullo sviluppo (o mancato sviluppo) del nostro Paese. Lo pubblica la Svimez, Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, che nei giorni scorsi a Roma ha presentato “150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011”, edito da Il Mulino. I numeri dei 150 anni dell’Italia unita sono contenuti in oltre 500 tabelle in 1150 pagine, realizzate su fonti di dati Istat, Svimez, Cnr, Banca d’Italia, Isvap, Mediobanca.
Dopo 150 anni, l’Italia resta un Paese spaccato a metà dal punto di vista economico. Dal 1861 al 2010, il Pil del Mezzogiorno a prezzi costanti è cresciuto di 18 volte, ma in modo disomogeneo. È nei primi 100 anni che si è creato il divario Nord-Sud, solo parzialmente recuperato nella stagione aurea del secondo dopoguerra. Se nel 1861 il Pil tra le due aree era simile, cioè pari a 100 per entrambi, dopo 150 anni, nel 2009, il Pil del Mezzogiorno risultava pari solo al 59% del Centro-Nord. Causa principale del divario resta la carenza di occupazione nel Mezzogiorno. Mentre il tasso di occupazione del Mezzogiorno nel 1951 era pari all’81% del Centro-Nord; nel 2009, quasi 50 anni dopo, era fermo al 68,9%.
Tra il 1952 il 1973 il Pil pro capite è cresciuto del 4,6% all’anno nel Mezzogiorno rispetto al 4,8 del Centro-Nord. Contributo fondamentale allo sviluppo del Sud è stato svolto dagli investimenti industriali nell’area, cresciuti del 7,9 contro il 6,3% del Centro-Nord dal 1952 al 1973. La quota che lo Stato destina agli investimenti industriali per il Sud rispetto al totale nazionale raddoppia in 20 anni, passando dal 15% degli anni 50 al 33% degli anni 70. Mentre aumentano soprattutto le grandi aziende: dal 1951 al 1981 al Sud il numero medio di addetti nelle imprese aumenta di oltre 4 volte, passando da 11,6 a 48,7, mentre al Centro-Nord si scende dai 69,6 ai 52,4.
Ma è uno sviluppo senza occupazione, in cui i nuovi posti di lavoro creati sono occupati da chi sceglie di rimanere. Così si attenuano gli squilibri del mercato del lavoro. Dal 1951 al 1974 dal Sud emigrano 4,2 milioni di persone, con punte di 240mila all’anno negli anni 60. I segnali più positivi vengono dai progressi raggiunti in termini di qualità della vita, con un processo di convergenza che ha portato il Mezzogiorno ai livelli del Centro-Nord, se non in alcuni casi addirittura a livelli superiori. Basti pensare alla speranza di vita: nel 1910 il divario tra Nord e Sud era molto forte. In Veneto si viveva 4 anni in più che in Campania (47,8 rispetto a 43,6), 8 anni più che in Puglia (47,8 rispetto a 39,2).
Sessant’anni dopo, nel 1970, la situazione si ribalta: la speranza di vita al Sud arriva in media a 69,9 anni contro i 69 della media nazionale, due anni in più del Nord-Ovest (68). Sulla stessa linea i risultati ottenuti nel campo dell’istruzione. Nel 1861 gli analfabeti al Sud erano pari all’87% della popolazione meridionale, con picchi vicini al 90% in Sardegna, Basilicata e Calabria, contro il 67% del Centro-Nord, e il 57% della Lombardia.
Nel 1951, l’alfabetizzazione aveva raggiunto i ¾ della popolazione meridionale, arrivando al 24,4% di analfabetismo. Quanto al tasso di scolarizzazione, la rincorsa ha interessato tutto il periodo in questione, arrivando dagli anni 2000 sul fronte universitario a registrare un sorpasso sul Centro-Nord: nel 2001 il tasso di iscrizione all’Università era del 33,5% al Sud e del 33,1% al Centro-Nord; nel 2009 il Sud aveva raggiunto quota 51,5% contro il 42,% del Centro-Nord. Nel complesso, guardando agli anni di istruzione pro capite, la differenza tra Mezzogiorno e Centro-Nord nel 2010 si era ridotta a mezzo punto percentuale (9,6 anni contro 10,1).

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