mercoledì, giugno 15, 2011

Grazie Pio. L'ex presidente nazionale ricorda la figura dell'assistente spirituale delleAcli











di Giovanni Bianchi - 15/06/2011

Quando pochi mesi dopo la scomparsa di Pino Trotta, stroncato da un tumore a 54 anni, padre Pio Parisi venne al circolo Dossetti di Milano per una conversazione sul suo ultimo libro, mia cognata lo apostrofò: "E così Pino ci ha lasciati soli a lavorare". La risposta di Pio fu fulminea: "No. Pino c'è". Dunque padre pio Parisi S.J., il prete inviato dall'Ufficio per la Pastorale del Lavoro della Cei dopo la "deplorazione" di papa Montini (giugno 1971) e il ritiro degli assistenti ecclesiastici, non ci ha lasciati alle 23 di lunedì 13 giugno. La malattia, solidale col passare degli anni, lo assediava lasciandone intatta la lucidità, che ha conservato fino alla fine.
Narrano le storie acliste e le leggende di via Marcora che quando nel 1975 si presenta ai dirigenti nazionali capitanati dal presidente Domenico Rosati, Pio li sorprendere estraendo dalla Bibbia l'elogio dell'ippopotamo..., esibendo dunque come biglietto da visita una frequentazione quotidiana della Parola di Dio e una sublime ironia nel giudicare gli accadimenti della storia. Una storia sulla quale – da figlio di Sant'Ignazio – tenta un costante discernimento "a partire dagli ultimi", stando in mezzo agli ultimi.
Il suo però non è il radicalismo sociale proprio di tanti testimoni. Gli ultimi sono il luogo dal quale far crescere una coscienza politica, non a caso il titolo del suo primo libro, "pro manuscripto", del 1975. Troviamo infatti all'inizio della premessa: "Questo scritto nasce dall'attenzione a quello che succede nel mondo e da un prolungato ascolto di tante voci diverse. Lo sforzo di apertura ai fatti e alle comunicazioni è stato accompagnato, sostenuto e permeato da una riflessione continua, volta a comprendere il significato più profondo dei particolari e del tutto. Questa ricerca di intelligenza fa parte di un impegno ancora più totale: la conversione della Fede". C'è già in sintesi lo stile di Pio e il senso di tutta la sua ricerca. Tra la povera gente con il cruccio e il gusto di individuare dove il Vangelo (non una qualche spiritualità) e la politica si incontrano. Dove il soffio dello Spirito anima le zolle del mondo e consente al sacerdote (parola da leggersi nell'ampiezza di senso riconosciutale dal Concilio) quella messa sul mondo – inventata in Cina da Teilhard de Chardin – e ripresa da Pio come cifra di una vocazione e di un ministero. Troviamo sempre nella citata premessa, che considero la "formula breve" del suo pensiero: "La mia Fede è tuttora più piccola di un granello di senape e, per questo, la mia intelligenza di quel che succede nel mondo è estremamente imperfetta: comunque essa costituisce l'unico valore qualificante la mia vita, l'unica carta che posso giocare, non per vincere qualcosa ma per essere utile a qualcuno". C'è tutto il percorso di Pio. La sua incredibile laicità, affine per molti versi a quei monaci – "fuorilegge di Dio" – di cui parla il piccolo fratello di Gesù Giorgio Gonella (figlio del celebre ministro democristiano) in un preziosissimo libretto. Il suo dare voce a quelli che non l’hanno, concretizzatosi nel 1985 con l'esperienza della "Parola ai piccoli", con un primo sussidio per la lettura del Vangelo di Luca. L'avversione al leaderismo, soprattutto quello clericale. Pio non ha mai nascosto scarso feeling istituzionale, una passione invece per il gioco di squadra, l'amicizia, la comunità (non c'è sequela senza comunità). Un fastidio per i vertici, il potere, i suoi organigrammi e liturgie. Una concezione quasi tedesca e così poco italiana del potere, perché oltre le Alpi si discute, non solo tra teologi, del potere demoniaco del potere e da noi invece si è detto che "il potere logora chi non ce l'ha".

Per questo così affezionato agli studenti fuori sede ospitati, a partire dal 1971, negli appartamenti del quartiere di Pietralata, a un tiro di schioppo dalla Tiburtina, in un edificio prefabbricato – quello dove lui stesso abitava – che richiama le sciatte architetture moscovite del socialismo realizzato, e, soprattutto, freddo d'inverno e rovente l’estate. Per questo la predilezione per l'associazione San Pancrazio di Cosenza, in particolare per Giorgio Marcello e il professor Pietro Fantozzi. I rapporti d'amicizia con Pietro Scoppola e suor Chiara Patrizia, la clarissa poetessa di Urbino. Per questo soprattutto l'intensità delle relazioni con il gruppo di gesuiti che ne hanno condiviso la ricerca: padre Mario Castelli, padre Saverio Corradino, padre Francesco Rossi de Gasperis, e, il più giovane Pino Stancari, che mensilmente saliva in treno dalla Calabria per un ciclo di letture bibliche durato anni e tuttora in corso presso l'associazione Maurizio Polverari. Insomma, mettete insieme lo svuotamento e la condivisione dei piccoli fratelli di Charles de Foucauld e l'alta scuola dei Gesuiti e avrete l'affascinante ossimoro di padre Pio Parisi.
I titoli dei suoi libri numerosi segnano come cartelli indicatori un itinerario percorso con lucidità da un prete che non si è mai pensato intellettuale. Questa sua attitudine, mai nascosta, lo rendeva rispettato con venerazione da chi "sta in alto" e nel contempo circondato da una cauta diffidenza. Pio ne era cosciente, e metteva tutto nel conto della fedeltà al Vangelo e dell'astuzia che prende le parte dei poveri. Mai che ti accadesse di vederlo prendere un pasto completo, come la vita di convento – che non ha frequentato – o almeno l'età avrebbero richiesto.

Non sono ovviamente mancati i momenti spinosi. Ricordo con commossa soddisfazione come mi riuscì di sventare da presidente nazionale una manovra tesa ad allontanarlo anzitempo da via Marcora. Ci fu complice entusiasta quel monsignor Salvatore Boccaccio, allora nei vertici della Cei e poi vescovo di Frosinone, che con Pio condivideva e ricambiava – se ho bene inteso – la direzione spirituale. Insomma, feci sapere "in alto" che alle Acli pareva di avere raggiunto un tale profilo da provare a chiedere un vescovo come assistente ecclesiastico. Don Salvatore (esilarato) doveva prestarsi a fare la "donna dello schermo" per proteggere la permanenza di Pio. Basta così, perché gli intrighi a fin di bene si fanno, ma poi non si raccontano. Confondemmo comunque così bene le carte "in alto" da spuntarla su tutto il fronte. Potevamo anche cantare un Te Deum... E quel geniaccio umbro di Ruggero Orfei poté reiterare nei corridoi della sede nazionale la sua rima quasi baciata:
"Pio Pio,
parlaci di Dio".

Ho rivisto Pio una settimana dopo la Pasqua. La malattia continuava a succhiargli energie. Si appisolò sette volte nel corso di un'ora e all'uscita mi dissi che mi sarei presto dovuto cercare un altro confessore. Lui comunque, sempre fedele a se stesso, usque ad...
Mi è stato sempre difficile intuirne se non tardivamente l'intenzione di fondo. Quando la malattia, dopo Natale, s'aggravò imboccando una strada senza scampo, gli amici del giro stretto della Maurizio Polverari si divisero in due scuole: chi suggeriva il ricovero in una struttura sanitaria, chi parteggiava più direttamente con Pio stesso che intendeva chiudere la sua giornata terrena nell'appartamento di via Degli Ortaggi. Il nome dice tutto, e ogni volta i tassisti di Roma mi guardano interdetti, per cui l'indicazione finisce sull'attigua via Torelli Violer, nientemeno che il fondatore del "Corriere della Sera". Pio vi si è trasferito nel 1971 e solo negli ultimi mesi ha passato le consegne relative agli studenti fuori sede al fido Antonio Russodivito. Io naturalmente ero per la struttura sanitaria. Nato a Sesto San Giovanni, ho respirato il fordismo prima ancora di succhiare il latte materno e una illimitata fiducia nella scienza e nelle tecniche, quelle mediche comprese. Pio la spuntò. Non intendeva finire in un groviglio di tubi e cannucce, ma si affidava alle cure del giovane Valentin, un ragazzo albanese che da qualche anno condivide l'appartamento e che nel frattempo ha un ottenuto il diploma di infermiere. Ha difeso la sua scelta anche con qualche asprezza nei confronti dei superiori. Lì la sua comunità. Lì la sua missione. Lì avrebbe incontrato la morte. Del resto le relazioni si erano ramificate nel corso degli anni. Sempre lì, in un vicino appartamento affittato dopo il ritiro ufficiale dalle Acli, Pio continuava le riunioni, frequentate anche dall'affiatato gruppo degli antichi compagni di studi del Massimo. Mi raccontò soddisfatto che quando uno di questi compagni di studi, piccolo imprenditore nel ramo dei sanitari e per questo definito dalla combriccola il "re dei cessi", gli aveva fatto il regalo di una nuova utilitaria, questa era risultata rubata la mattina successiva. A Pio venne l'idea di rivolgersi a chi aveva fama di guidare la piccola malavita del quartiere di Pietralata, e la mattina successiva l'utilitaria era tornata esattamente nel sito del parcheggio da dove era sparita. Con la raccomandazione del capetto: "E comunque ricordati di avvertire quando cambi automobile". Tutto in quei paraggi ha conservato un'aria popolare e un sapore pasoliniano. A partire da una via diversamente nominata ma che tutti in zona chiamano via Dei Frigoriferi, perché usata come discarica degli ingombranti elettrodomestici consunti dall'uso. Li Pio – che aveva cominciato il ministero nella cappella universitaria – ha deciso di chiudere i suoi giorni. E alla fine mi sono reso conto che ancora una volta aveva avuto ragione lui. E cioè aveva fatto la scelta più cristiana perché è più umana. La buona morte (buona, non dolce) al posto dello sforzo supremo e inutile delle tecniche nelle quali nutro da sempre fiducia. La scelta più coerente e interna alla grande Tradizione cristiana, che si è sempre occupata del ben morire, mentre stiamo attraversando una fase storica in cui serpeggia anche tra molti credenti una tale passione per la "vita lunga" che rischia di presentarsi come fragile alternativa alla vita eterna.
Pio ha scelto di morire nel suo letto, tra le pareti di un appartamento ultrapopolare e tutto spifferi, sotto gli occhi degli amici che riescono a vigilare più di quelli del computer. Già, perché Pio ha continuato a scrivere, ma si è sempre rifiutato alla tastiera e al web: a quelli pensava Laura Dematteo. Morire immerso nelle attenzioni umane piuttosto che in quelle tecnologiche. Non me l'ha spiegato, ma alla fine sono arrivato a capire.

E adesso siamo in tanti a portarci dentro un pezzo di Pio, perché ci ha insegnato senza farcelo pesare che val meglio leggere gli uomini al posto dei libri, che pure ha continuato a scrivere fino alla fine. Per questo, non riuscendo a far tacere l'amarezza, mi aggrappo come a un mantra, e cambiando solo il nome, alla risposta milanese di alcuni anni fa: " Pio c'è".

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