Vi sarà il tempo per un ricordo meditato e sistematico di Maurizio Valenzi, di cui il 16 novembre si sarebbero celebrati i cento anni. Nel momento in cui termina la sua intensa e irripetibile presenza, vale la pena, forse, di dare spazio ai pensieri disordinati, all’immagine dell’uomo vivo e indomito, che ha lasciato una traccia indelebile, nella storia di questa comunità civile del Mezzogiorno, di sé, del suo comportamento umano, della sua azione di governo e che ha consegnato un messaggio di amore profondo a ciascuno di quelli che lo hanno conosciuto. Maurizio - così lo chiamavano un pò tutti - non solo è stato il sindaco di Napoli in una stagione difficile, come quella di prima e dopo il terremoto, ma ha rappresentato, soprattutto, l’anima della città che non intende arrendersi e vuole aprirsi al mondo. Nato a Tunisi, da una famiglia livornese, fin da giovane si è dedicato alle passioni della sua vita, a cominciare dalla pittura. La politica è stato l’impegno principale della sua esistenza, ma non ha mai rappresentato un mestiere, un’occupazione esclusiva e totalizzante, un grigio strumento di gestione del potere. Del resto, il suo cosmopolitismo, le conoscenze e le amicizie consolidate nel corso della sua permanenza in Tunisia, in Francia e in Italia, si sviluppavano nei campi più diversi, come dimostrano i suoi rapporti con personalità come Loris Gallico, Carlo Levi, Tristan Tzara, Paul Eluard, Louis Aragon, Paolo Ricci, Renato Guttuso, Emilio Notte, Sebastian Matta ed Eduardo De Filippo. L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo, ma già solo questi nomi rivelano lo spessore e la complessità di un’esperienza umana, che mai si sarebbe potuta inaridire nel solco di una “politica politicante”. Del resto, la straordinaria autonomia di giudizio, la nettezza delle opinioni e, perfino, l’ironia veemente, di cui Valenzi era dotato, gli consentivano di unire un’attività senza sosta, ad un sufficiente distacco da una politica meschina e fine a sé stessa, ad una curiosità per tutti gli altri aspetti della vita, che meritavano di essere vissuti intensamente, da quelli artistici a quelli personali. La sua particolare “scelta di vita” fu quella di una militanza lunga e coerente, non priva di sofferenze e privazioni, ma sempre accompagnata da una visione generale dell’esistenza e dei rapporti umani, che non si esauriva in una sola dimensione: per questo, Valenzi ha poi confessato, nel suo ultimo libro, di “essersi divertito”. In un quadro tanto articolato, in una vita così estesa e ricca, la sua presenza a Napoli è sicuramente l’elemento distintivo, che permette di ricondurre a sintesi compiuta il mare di fatti e vicende che ha solcato lungo un secolo. Come egli stesso ha ricordato, in un’intervista: “Io sono arrivato qui a Napoli nel gennaio del 1944 dopo essere stato liberato dall’ergastolo a cui ero stato condannato dai francesi per sabotaggio industriale. Ma prima però fui portato ad Algeri dove insieme ad altri prigionieri inglesi liberati feci una trasmissione radiofonica ispirata a quelle che faceva De Gaulle. Dopo tornai a Tunisi e ritrovai mia moglie - anche lei era in carcere ma ne era potuta uscire quando i francesi con l’occupazione tedesca e italiana aprirono le prigioni e scapparono verso i loro alleati - e mio figlio. Fu lì che ricevetti un messaggio da Spano e Reale che mi invitano a raggiungerli il prima possibile a Napoli. Così, grazie all’aiuto degli amici aviatori inglesi, riuscii a raggiungere il territorio italiano: prima Taranto, poi Bari e, finalmente, Napoli dove subito mi misi a lavorare con i miei compagni alla testa di una nuova organizzazione che stava nascendo”. Da allora, il suo lavoro per la città, anche da parlamentare italiano ed europeo, è stato denso e lungimirante. Io l’ho conosciuto, in due diversi momenti. Da giovane consigliere di quartiere, il più giovane di Napoli, all’inizio della sua attività da sindaco. E poi, da compagno di partito e di ispirazione politica, nel gruppo dei riformisti napoletani, fino a diventarne - se posso usare questo termine - amico. Del primo periodo, conservo il ricordo di un sindaco dotato di grande forza e autorevolezza, ma anche impegnato concretamente nella soluzione dei problemi, a diretto contatto con i cittadini, pur nelle condizioni più sfavorevoli. Valenzi, infatti, ha guidato Napoli per otto anni, compresi quelli del terremoto e del terrorismo, senza disporre di una maggioranza in consiglio comunale. Eppure è riuscito a realizzare, nel solco di una continuità di azione, molti programmi per la città. La sua esperienza di governo non va sicuramente “santificata”, ma rivista alla luce di una lettura più approfondita, in grado di restituire alla storia il valore della sua figura e della sua opera. Certo è che, di quella fase e, soprattutto, di Maurizio Valenzi sindaco, i napoletani conservano un ricordo molto favorevole e benaccetto. Del secondo periodo, in cui ho avuto la possibilità di frequentarlo da vicino, ricordo, soprattutto, le riunioni nella sua casa di via Manzoni, “pericoloso ritrovo” dei non sempre numerosi riformisti napoletani, centro di incontri e di discussioni ricorrenti. Lì aveva possibilità di svilupparsi un confronto politico sulle sorti di Napoli e del paese, che spesso vedeva partecipe Giorgio Napolitano. L’unico tra i presenti che interloquiva con lui, senza timori reverenziali, era proprio Maurizio Valenzi, che svolgeva riflessioni originali, talvolta interrompendo e replicando, talaltra apertamente divergendo dalle opinioni altrui, anche le più autorevoli. Tuttavia, la sua preoccupazione maggiore, anche negli ultimi anni della sua vita, era quella per una vera democrazia della partecipazione, per la ricerca di sedi libere in cui esprimere il parere di ciascuno, dibattere veramente la politica. Di quest’ultima fase, resta indelebile la memoria del suo viso gioviale, della sua lucidità, della sua curiosità per il mondo e del suo dolore per non poterlo più vedere (e raffigurare) con i suoi occhi gentili. Così come, acquista oggi un grande significato, la ricerca continua della moglie Litza, anche dopo la sua scomparsa, l’amorevole e ininterrotto rapporto con i figli Marco e Lucia, l’affetto smisurato nei confronti dell’amatissima nipote Libara. Maurizio Valenzi diceva che il suo impegno maggiore era cominciato verso i settant’anni. Vogliamo fermamente pensare che non si sia concluso e continui ancora tra noi, perché di uomini della sua umanità, concreta e temporale, abbiamo molto bisogno.
Amedeo Lepore
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