sabato, maggio 02, 2009

MIMMO LUCA': "IO, REFERENDARIO PENTITO".

Per riflettere sul prossimo referendum sulla legge elettorale riproduco questo articolo, pubblicato da Europa, di Mimmo Lucà. coordinatore dei Cristiano Sociali e deputato del PD.
Settimanalmente avremo altre posizioni. Il referendum va discusso e riflettuto seriamente.

MIMMO LUCA': "IO, REFERENDARIO PENTITO".

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Sono stato tra quanti hanno contribuito a promuovere il referendum abrogativo sulla legge elettorale. Le ragioni di questa scelta le ho dichiarate allora. La legge Calderoli viola un principio democratico elementare: i parlamentari li scelgono gli elettori, non le segreterie dei partiti.
Il cosiddetto “porcellum” ha creato un parlamento di onorevoli “nominati” dalle segreterie dei partiti, spezzando il rapporto tra cittadino ed eletto che si era creato nelle legislature precedenti. Ha cancellato i collegi uninominali privando il territorio di una rappresentanza e il parlamentare di una legittimazione popolare, minandone l’autorevolezza e facendo venire meno nei fatti il principio della responsabilità della politica. Il risultato è stato quello di allontanare e quasi separare dal paese la classe politica.
Sono ragioni più che valide per cambiare quella legge elettorale. Ma la concezione stessa della democrazia e lo strettissimo legame tra questa e il sistema politico e istituzionale mi inducono a ritenere che quella riforma sia prerogativa e compito del parlamento.
Ho aderito al referendum solo dopo aver constatato che i partiti non sarebbero riusciti a esprimere una reale volontà politica di farlo. Tanto meno un accordo. Insomma, se ho sostenuto il percorso referendario è stato essenzialmente in una logica di “deterrenza”, convinto di offrire in questo modo un utile pungolo al parlamento. Già allora sostenevo, come faccio oggi, che spetta alle camere elaborare la nuova legge. Una vittoria referendaria – lo dicemmo in tanti – non avrebbe fatto venir meno la necessità di una riforma per via parlamentare. Va d’altra parte ricordato lo scenario politico nel quale prese corpo l’iniziativa del referendum. L’Unione aveva vinto di misura le elezioni e stava governando, con Prodi presidente del consiglio e con i ben noti problemi di coesione della coalizione. Il cantiere del Partito democratico stava finalmente dando credibilità alla prospettiva di un bipolarismo compiuto, in grado di superare la frammentazione e di assicurare una diversa governabilità.
È da questo scenario che il referendum traeva il suo senso. Una riforma della legge elettorale non sarebbe stata facile, in parlamento, ma non avrebbe corso il rischio di colpi di mano della destra.
Sappiamo poi come è andata. Crisi di governo, elezioni anticipate, rinvio del referendum, netta vittoria del centrodestra, Berlusconi di nuovo al governo. In questo scenario la funzione deterrente del referendum è semplicemente svanita. Berlusconi non ha bisogno, oggi, di cambiare la legge. E se nel referendum dovessero prevalere i Sì, la normativa che ne risulterebbe sarebbe per lui ancora più favorevole. Il Pdl sarebbe predestinato a fruire del premio di maggioranza che gli consentirebbe di controllare saldamente, da solo, il parlamento. Solo la Lega avrebbe interesse a cambiare la legge, obiettivo che potrebbe perseguire anche minacciando di uscire dalla maggioranza. Ma sarebbe un’arma spuntata: un nuovo ricorso alle urne consegnerebbe il governo del paese al solo Pdl. Berlusconi avrebbe due risultati utili dalla sua. Noi neppure uno. Si capisce, quindi, il tono sicuro e ostentato con cui il presidente del consiglio ha annunciato il suo orientamento favorevole al quesito referendario.
La legge elettorale è un elemento importante, se non decisivo, di un sistema politico. Per questo non possiamo rischiare che il rimedio sia peggiore del male. Una eventuale vittoria dei Sì, da sola, non cancellerebbe quell’insulto alla democrazia costituito dalle liste bloccate che per noi è stata la motivazione più forte a sostenere il referendum. Anche il referendum abrogativo è un importante strumento di democrazia, ma insufficiente, da solo, a porre le basi di una nuova e più solida costruzione politico-istituzionale. Non si disegna un sistema bipolare degno di questo nome a colpi di referendum. Tanto meno senza tener conto dei concreti rapporti di forza in campo. La politica reale è altro dalla politologia.
Uno strumento si utilizza quando ci sono buone possibilità che risulti efficace. Se invece – in uno scenario politico profondamente mutato – è quasi sicuro che darà risultati opposti a quelli desiderati, allora meglio rinunciare. Spiegando agli elettori la evidente razionalità politica (non ideologica) che consiglia di farlo. Comprendo le ragioni che hanno spinto il Pd a pronunciarsi per il Sì, tanto più dentro una campagna elettorale che risulterà decisiva per la prospettiva del partito dei riformisti. Non riesco però a condividerle fino in fondo.
Qualcuno osserva che la scelta della data del 21 giugno rende molto improbabile, ancora una volta, il raggiungimento del quorum. Ma ben venga il referendum, aggiunge, se la campagna che lo precede può essere utilizzata per sensibilizzare i cittadini sul tema. Può essere. Obietto però che gli italiani, oggi alle prese con problemi esistenziali e sociali di grave portata, difficilmente si riveleranno disponibili ad ascoltare. È su ben altro terreno, quello della crisi economica, dell’impoverimento progressivo delle famiglie, della riduzione del benessere e delle opportunità, che i cittadini attendono – e con urgenza – risposte dalla politica. Le riforme politiche e istituzionali, per l’uomo della strada, non sono la priorità.
Quella domenica, sia chiaro, sarà importante andare alle urne, contribuendo al quorum. E di qui in avanti occorrerà spiegare all’opinione pubblica le ragioni per le quali la legge attuale va profondamente modificata. In primo luogo perché nessuna seria riforma del sistema dei partiti e dell’architettura istituzionale del paese – dalla riduzione del numero dei parlamentari, al rafforzamento dell’esecutivo in una chiave di maggiore stabilità e governabilità – è pensabile senza una nuova legge elettorale, ad esempio sulla base del modello tedesco. In secondo luogo, perché è più che mai necessario superare il meccanismo delle liste bloccate per restituire diritto di parola e di scelta ai cittadini, risultato peraltro non garantito da un successo del quesito referendario.
Votare Sì, però, è altra cosa. Sarebbe bene riflettere ancora.

Mimmo Lucà

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