lunedì, aprile 07, 2008

I costi della guerra: il papa e gli italiani avevano ragione. (perciò meglio Obama)

Leonardo Becchetti - 28/03/2008 da BENECOMUNE.NET

Quando più di cinque anni fa, di fronte ai primi concreti rischi di guerra all’Iraq, si levarono le voci contrarie di moltissime democrazie europee, di quasi tutti gli italiani, e quella di Giovanni Paolo II sentimmo i commenti più vari...

eccesso di buonismo, incapacità di comprendere la gravità e novità dello scenario, carattere “imbelle” degli europei più propensi a Venere che a Marte, buonismo cattolico e paura per l’incolumità dei cattolici e dei missionari nei paesi islamici (col senno di poi tutt’altro che infondata), popolo della pace senza attributi, ecc.

Le valutazioni che si sono susseguite in questi giorni a cinque anni dall’intervento ci consentono di tornare oggi sul tema. Abbandoniamo per un attimo le nostre posizioni di principio (la guerra è la più grossa “arma di distruzione di relazioni di massa”, ha costi sociali ed umani spaventosi e crea delle ferite che si risanano soltanto dopo moltissimi anni) e utilizziamo il “cinico” approccio dell’analisi costi-benefici.

Immaginiamo cosa sarebbe successo se cinque anni fa i fautori della guerra avessero presentato la seguente analisi costi-benefici.

Dal lato dei costi una perdita di vite umane ingente: 4,000 soldati americani, un numero simile di soldati iracheni, almeno 80,000 morti tra i civili iracheni (addirittura 650,000 secondo le stime apparse nell’ottobre 2006 sulla rivista medica Lancet). Qui ci sarebbe da precisare che i morti purtroppo non sono tutti uguali ma pesano di meno al crescere della distanza geografica. E’ un problema di sensibilità dell’opinione pubblica, dei politici, dei media ma non possiamo negare che sia di fatto così.

Ci sono poi i costi umani, sociali ed economici di circa 2,2 milioni di profughi che hanno abbandonato l’Iraq per rifugiarsi in Iran (circa 100.000), in Giordania (circa 600.000) e, in piccola parte, in Libano, Egitto e Turchia. Il dilemma era restare sotto le bombe, e sopportare un rischio elevatissimo di essere ammazzati, oppure azzerare questo tipo di rischio ma scegliere la vita misera dell’espatriato. Ad essi si aggiungono circa 2,4 milioni di profughi interni.

Per non parlare dei costi economici diretti degli Stati Uniti. Un lavoro recente di Joseph Stiglitz, premio nobel per l’economia, ricorda che il Congressional Budget Office stima in 500 miliardi di dollari i costi totali diretti della guerra. Stiglitz calcola che, includendo come costi indiretti le spese sanitarie per i soldati rientrati, la ricostituzione delle risorse militari e i costi maggiori di reclutamento, la spesa complessiva dovrebbe arrivare al doppio (1.000 miliardi di dollari). Inutile dire quante cose migliori si sarebbero potute fare con queste risorse.
Questa la lista (parziale) dei costi che gli ipotetici presentatori del progetto guerra in Iraq dovrebbero allegare.
E i benefici ?

Eliminazione del rischio di armi di distruzione di massa (che non esistevano)? Duro colpo alla minaccia del terrorismo islamico? Pare sia accaduto proprio il contrario perché il terrorismo islamico ha trovato una nuova profonda ragione di vita e di aggregazione.

Eliminazione di un dittatore feroce? Lo si poteva neutralizzare e controllare anche con il sistema delle pressioni, sanzioni, ispezioni e minacce d’intervento come alla vigilia della guerra stessa. Miglioramento della qualità della vita degli iracheni? Dopo cinque anni non se ne vede ancora l’ombra. Gli indicatori rozzi ma misurabili che abbiamo, sottolineano che il consumo di corrente elettrica è ancora leggermente inferiore ai costi di prima della guerra. Se potessimo fare un’indagine con i nostri metodi per calcolare la soddisfazione di vita non credo troveremmo risultati lusinghieri.

Gli unici “vincitori” di questa guerra sono state le imprese che si occupano di ricostruzione e di logistica il cui valore di borsa è aumentato notevolmente in questi anni.

Non c’è altro da dire su quella che probabilmente è stata la pagina più oscura e il punto più basso toccato dall’amministrazione americana del dopoguerra. Se un candidato alla presidenza (Obama) sta conducendo una campagna elettorale di successo nelle primarie sostenendo orgogliosamente di essere stato l’unico ad opporsi sin da principio alla guerra, evidentemente l’opinione pubblica americana ha capito.

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