La storia ci dice che il Parlamento non è stato mai in grado di varare da solo una legge elettorale se si eccettua la scorsa legislatura quando, in modo unilaterale, il centrodestra ha approvato il cosiddetto “porcellum”, come l’ha definita, ma non in latino, il suo stesso artefice, l’allora ministro Calderoli. La legge elettorale oggi in vigore infatti è nata essenzialmente per impedire o ridurre al minimo la vittoria del centro-sinistra e di fatto ha reso instabile la maggioranza e ingovernabile il Paese. L’ipotesi referendaria sembra rappresentare una spinta, uno stimolo per cambiare le regole e per aprire processi di riaggregazione politica sia a destra che a sinistra. Prova ne è il fatto che il referendum è un approdo che grandi e piccole forze vogliono evitare. Ma i tempi sono molto stretti. A breve il comitato promotore dei referendum per cambiare la legge Calderoli avvierà la raccolta delle firme.
Ma il referendum non è sicuramente la soluzione ottimale. Il primo quesito così come è congegnato tende ad eliminare il premio di maggioranza alla coalizione per sostituirlo con quello di lista mantenendo lo sbarramento del 4% alla Camera e dell’8% al Senato. Si tratterebbe di un rimedio transitorio, di un palliativo. Il secondo quesito invece punta ad abrogare la norma sulle candidature plurime.
Come si vede i quesiti referendari non modificherebbero i difetti più gravi della legge Calderoli, ossia la scelta dei candidati realizzata solo dai partiti e la mancanza di un rapporto tra eletti e territorio. Nonostante questi limiti, qualora il governo non riuscisse nel tentativo di presentare in Parlamento una nuova legge elettorale, cui sta lavorando il ministro Chiti, le Acli - ha dichiarato il loro presidente nazionale Andrea Olivero- entrerebbero nel comitato referendario, ma solo ad alcune condizioni.
Anzitutto, bisognerebbe riprendere il nucleo essenziale della proposta Amato, l’idea di una “convenzione” largamente rappresentativa delle istanze presenti nella società, che una rappresentanza solamente partitica non può più intercettare od esprimere, come ha dimostrato la stessa bocciatura di questa proposta da parte dei partiti della maggioranza. Non siamo del resto entrati nel comitato elettorale proprio perché abbiamo visto il rischio reale che fosse “ostaggio” dei partiti, come puntualmente abbiamo verificato in queste settimane.
La disponibilità è subordinata dunque alla garanzia che il ruolo della società civile vada ben oltre la mobilitazione per la raccolta delle firme, ma si esplichi anche nel percorso verso una politica di ampio disegno riformatore. Insomma, il referendum non può essere la soluzione di tutti i problemi e l’approdo finale non può coincidere con un bipartitismo che sostituisca il bipolarismo.
Altro importante appuntamento politico è quello delle amministrative che si terranno nella prossima primavera. Si tratta di un banco di prova delicato per il governo che i sondaggi, di cui, in verità, più nessuno di noi ha fiducia, danno in continua perdita di consensi.
Saranno poco meno di 12 milioni, quasi un quarto dell'intero corpo elettorale, i cittadini chiamati alle urne. Alle provinciali voteranno oltre 3 milioni e mezzo di elettori (3.647.803 elettori) mentre alle comunali si recheranno alle urne più di 9 milioni di elettori (9.379.654 elettori).
Si vota in otto province (Vercelli, Como, Varese, Vicenza, Genova, La Spezia, Ancona, Ragusa) e in 934 comuni, 163 dei quali con popolazione superiore a 15 mila abitanti. Tra i 27 capoluoghi di provincia interessati alla consultazione ci sono città importanti del Sud (Reggio Calabria, Lecce, Taranto, Trapani, Agrigento, Oristano) del Nord (Verona, Asti, Cuneo, Alessandria, Parma, Gorizia) e del centro (L’Aquila, Latina, Lucca, Pistoia). Ma i luoghi dove è maggiormente concentrata l’attesa sono Genova al Nord e Palermo al Sud.
Per le prossime amministrative, l’Unione ha scelto la formula dell’“election day”, che si svolgerà domenica 4 febbraio, ossia di realizzare le Primarie di coalizione in quelle località dove si deve individuare il nuovo Sindaco o il nuovo Presidente della Provincia. E’ una strategia che condividiamo-dicono alle ACLI - perché è un metodo per la scelta delle candidature che punta a coinvolgere i cittadini, a renderli più partecipi della vita politica.
Ma il referendum non è sicuramente la soluzione ottimale. Il primo quesito così come è congegnato tende ad eliminare il premio di maggioranza alla coalizione per sostituirlo con quello di lista mantenendo lo sbarramento del 4% alla Camera e dell’8% al Senato. Si tratterebbe di un rimedio transitorio, di un palliativo. Il secondo quesito invece punta ad abrogare la norma sulle candidature plurime.
Come si vede i quesiti referendari non modificherebbero i difetti più gravi della legge Calderoli, ossia la scelta dei candidati realizzata solo dai partiti e la mancanza di un rapporto tra eletti e territorio. Nonostante questi limiti, qualora il governo non riuscisse nel tentativo di presentare in Parlamento una nuova legge elettorale, cui sta lavorando il ministro Chiti, le Acli - ha dichiarato il loro presidente nazionale Andrea Olivero- entrerebbero nel comitato referendario, ma solo ad alcune condizioni.
Anzitutto, bisognerebbe riprendere il nucleo essenziale della proposta Amato, l’idea di una “convenzione” largamente rappresentativa delle istanze presenti nella società, che una rappresentanza solamente partitica non può più intercettare od esprimere, come ha dimostrato la stessa bocciatura di questa proposta da parte dei partiti della maggioranza. Non siamo del resto entrati nel comitato elettorale proprio perché abbiamo visto il rischio reale che fosse “ostaggio” dei partiti, come puntualmente abbiamo verificato in queste settimane.
La disponibilità è subordinata dunque alla garanzia che il ruolo della società civile vada ben oltre la mobilitazione per la raccolta delle firme, ma si esplichi anche nel percorso verso una politica di ampio disegno riformatore. Insomma, il referendum non può essere la soluzione di tutti i problemi e l’approdo finale non può coincidere con un bipartitismo che sostituisca il bipolarismo.
Altro importante appuntamento politico è quello delle amministrative che si terranno nella prossima primavera. Si tratta di un banco di prova delicato per il governo che i sondaggi, di cui, in verità, più nessuno di noi ha fiducia, danno in continua perdita di consensi.
Saranno poco meno di 12 milioni, quasi un quarto dell'intero corpo elettorale, i cittadini chiamati alle urne. Alle provinciali voteranno oltre 3 milioni e mezzo di elettori (3.647.803 elettori) mentre alle comunali si recheranno alle urne più di 9 milioni di elettori (9.379.654 elettori).
Si vota in otto province (Vercelli, Como, Varese, Vicenza, Genova, La Spezia, Ancona, Ragusa) e in 934 comuni, 163 dei quali con popolazione superiore a 15 mila abitanti. Tra i 27 capoluoghi di provincia interessati alla consultazione ci sono città importanti del Sud (Reggio Calabria, Lecce, Taranto, Trapani, Agrigento, Oristano) del Nord (Verona, Asti, Cuneo, Alessandria, Parma, Gorizia) e del centro (L’Aquila, Latina, Lucca, Pistoia). Ma i luoghi dove è maggiormente concentrata l’attesa sono Genova al Nord e Palermo al Sud.
Per le prossime amministrative, l’Unione ha scelto la formula dell’“election day”, che si svolgerà domenica 4 febbraio, ossia di realizzare le Primarie di coalizione in quelle località dove si deve individuare il nuovo Sindaco o il nuovo Presidente della Provincia. E’ una strategia che condividiamo-dicono alle ACLI - perché è un metodo per la scelta delle candidature che punta a coinvolgere i cittadini, a renderli più partecipi della vita politica.
1 commento:
ma insomma come mai del referendum elettorale non ne parla proprio nessuno?. Sembra lontano dal'iordine del giorno mentre il governo, peraltro, viene battuto per due voti al senato e si avvia ad una fase critica.
vogliamo davvero mettere mano o facciamo un'altra elezione con il porcellum?
Marcello Li Donni
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